Seguici su

Bologna FC

7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 30 Mar

Pubblicato

il

 

 

38- Dall’Ara, che amò il Bologna fino a lasciarci il cuore

Dagli anni eroici del ciclo rossoblù, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, fino a quelli più stentati del dopoguerra, c’è una figura-chiave della storia rossoblù a cui finalmente è arrivato il momento di dare lo spazio che merita. Dopo averlo citato più di una volta, lungo questo viaggio pieno di gloria e passione, è ora di chiamare alla ribalta l’uomo che per trent’anni ha guidato la società, il presidente più longevo della storia del Bologna. E il più vincente.

L’uomo che anche negli anni Cinquanta in arrivo, così pieni di zone d’ombra, illuminati a sprazzi dal genio di Cappello, dal talento dei danesi Pilmark e Jensen, dalle illuminazioni di Mike, dalla genuina dedizione alla causa di Cervellati e Pivatelli, non molla mai, nemmeno davanti alle critiche. Vuole riportare il Bologna lassù, dove aveva saputo tenerlo così a lungo. Ci riuscirà, infine, nell’anno di grazia 1964, ma non farà in tempo a godersi lo spettacolo fino in fondo.

Ecco, proviamo a raccontarlo, il presidente della gloria e delle emozioni più intense. Sapendo che un pugno di righe non basterà. E partendo dal nome, che dice tutto a chi si tinge il cuore di rosso e di blu. Renato Dall’Ara.

Un self-made man, che sulla poltrona presidenziale non era nemmeno arrivato per scelta. C’era da sostituire Gianni Bonaveri, nel 1934. Lui, industriale reggiano, viveva benissimo gestendo la sua ben avviata azienda di termomaglieria. Ma qualcuno lo aveva tirato per la giacca. Alte sfere, negli uffici del Fascio e in quelli della Figc. L’opera di convinzione l’aveva iniziata Leandro Arpinati, e andò avanti fino al ‘33, anno in cui il gerarca fascista, ormai inviso alla nomenclatura del suo stesso partito e prossimo al confino di Lipari, lasciò la carica di presidente federale del calcio.

Alla fine Dall’Ara accettò e prese le redini del Bologna. Di calcio sapeva poco o niente. Ma ci si mise d’impegno, e si rese conto da subito che si trattava pur sempre di una bella ribalta. La determinazione era nel suo carattere, la passione crebbe in fretta. In fondo bastava, avrebbe detto lui stesso, metterci un po’ di “disciplina volonterosa”. Era il termine coniato in spogliatoio, prima di una partita, per arringare i suoi ragazzi. «Per vincere servono tre cose. Volontà, disciplina e… e… la terza? Ah certo… la terza è la disciplina volonterosa».

Questo fu Dall’Ara, il presidente che coi suoi modi schietti e ruspanti entrò in fretta nel cuore dei bolognesi. Anche perché vinceva, e non poco. Subito la Coppa Europa del ‘34, e il leggendario Torneo dell’Esposizione di Parigi del ‘37. Poi, naturalmente gli scudetti. Quattro nell’era del Bologna più sfavillante. Nel ‘36 e ‘37 col genio Weisz in panchina, nel ‘39 con Felsner, splendido cavallo di ritorno, a completare l’opera del grande tecnico ebreo fuggito dall’Italia per le nefande leggi razziali, e inseguito dal nazismo fino alla tragica fine. Ancora scudetto, sempre con Felsner, nel ‘41, coi venti di guerra che già soffiavano sull’Italia.

Tecnicamente ferrato o no, Dall’Ara i talenti li trovava. E li portava in rossoblù. Cominciò con gli uruguagi, soprattutto con Sansone e Andreolo che sarebbero restati a lungo nel suo cuore. Il fido “Lele”, poi, anche come dirigente, osservatore, consigliere. L’elenco dei fuoriclasse è interminabile. Fedullo, Puricelli, Ferrari, Cappello, Pivatelli, Mike. E poi “Aler”, come lo chiamava lui. Ovvero Helmut Haller, quel tedesco che di tedesco aveva poco o niente, incline com’era alla fantasia e, fuori dal campo, alla buona compagnia. Per “Aler” rischiò anche la vita: di ritorno dal viaggio che sanciva il passaggio dall’Ausgburg al Bologna, l’auto di Dall’Ara slittò sul fondo ghiacciato e capottò in mezzo a un campo. Davanti all’autista, preoccupato per le sue condizioni, il pres sventolò, ancora euforico, il contratto del tedesco. «L’importante è che si sia salvato questo. Di macchine ne costruiscono tante, ma di campioni così ce n’è uno. E adesso viene da noi».

Era cresciuto a pane e lavoro, fino a diventare commendatore della Repubblica Italiana. E forse per questo, se intravedeva in un suo giocatore lo stimolo ad arricchirsi culturalmente, lo pungolava. Fu così con Giacomino Bulgarelli: quando il ragazzo, dopo la maturità, decise che era ora di fare sul serio col pallone e di rinunciare all’Università, fu Dall’Ara a convincerlo a iscriversi, ricordandogli i rimpianti che lui, cresciuto in una famiglia dove lo studio sarebbe stato un lusso, aveva avuto per il resto della vita.

Andò avanti trent’anni. Coi suoi “Sine qua non”, i suoi “io a lei non ci diciamo niente” rivolto ai giornalisti, la sua conduzione della società accorta e al tempo stesso accentrata. Con le interminabili anticamere che tutti i giocatori, anche i grandi campioni, dovevano fare per strappare un aumento sul contratto. Sempre penando, quasi mai avendola vinta.

Aveva le sue fisse, il presidente. Per esempio, il tecnico che amò di più fu certamente Gipo Viani. Ma dopo gli anni delicati, quando anche la piazza sembrava aver dimenticato i momenti d’oro, seppe far buon viso a cattivo gioco chiamando un maestro come Fulvio Bernardini a ricostruire il Bologna. Non si amavano, i due. C’era rispetto, come in ogni buon rapporto di lavoro. Ma il Dottore fece il capolavoro, costruì alla sua maniera il Bologna che giocava come sanno fare “solo in Paradiso”. Portò il Bologna allo spareggio del 7 giugno 1964, a giocarsi lo scudetto con l’Inter. Lo guidò nel trionfo. Ma Dall’Ara non c’era più. Il suo cuore, sfibrato anche dall’assurdo caso-doping montato contro cinque suoi ragazzi (e contro il Bologna che molti non volevano più vedere sul trono del calcio italiano), si fermò all’improvviso tre giorni prima dell’ultima gioia. Dall’Ara era a Milano, negli uffici della Lega col collega-rivale Moratti, a discutere (animatamente, si seppe) di premi-scudetto. Crollò a terra e non si rialzò più. Il Bologna lo onorò sul campo, laggiù a Roma, e poi corse a piangerlo alla Certosa con lo scudetto, il quinto della sua gestione irripetibile, cucito sulla maglia.

Continua a leggere le notizie di 1000 Cuori Rossoblu e segui la nostra pagina Facebook

Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *