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7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 7 Giu

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48 – Il settimo sigillo: 7 giugno 1964

Roma, stadio Olimpico, 7 giugno 1964. Alle cinque della sera, nel caldo afoso di un’estate in anticipo, si gioca il primo spareggio per lo scudetto nella storia del campionato italiano di calcio a girone unico. Di fronte l’Inter di Helenio Herrera, che il 27 maggio ha conquistato la Coppa dei Campioni battendo in finale, per 3-1, il Real Madrid di Puskas e Di Stefano, e il Bologna di Fulvio Bernardini. La squadra che ha “osato” riprendersi un posto nell’aristocrazia del calcio, dove mancava da prima dell’ultima guerra, dai tempi del ciclo felice dei quattro scudetti in sei stagioni, tra il ‘35 e il ‘41. Ha osato tanto che qualcuno, destinato a restare sconosciuto (se non altro fino alle confessioni rese da Gipo Viani al dottor Dalmastri, e rivelate a fine anni Novanta dal leggendario “doc” rossoblù), ha anche provato a intorbidire le acque e a tagliarlo fuori, montando ad arte un “caso doping” che ha prima allarmato poi acceso la piazza, fino a sgonfiarsi una volta chiaro che la vera vittima della manovra è stata proprio la squadra rossoblù. Risolto il cosiddetto caso, restituiti al Bologna i punti che gli erano stati ingiustamente tolti, concluso il campionato con le due squadre appaiate a quota 54, tutto infine si deciderà qui, sull’erba dell’Olimpico, davanti agli occhi di sessantamila spettatori.

 

Non è nuovo a spareggi per il titolo, il Bologna. Prima del girone unico, già due volte si era trovato in questa situazione. In tempi ormai lontani. Nel ‘24-25, con i cinque tesissimi faccia a faccia col Genoa che gli aprirono la strada al primo scudetto, in quella che era considerata a ragione la vera finale, visto che l’Alba Roma vincitrice dell’altro girone non era all’altezza di nessuna delle due squadre rossoblù. E ancora nel ‘28-29, quando il gran finale contro il Torino si risolse proprio a Roma, dopo tre partite.

L’ambiente rossoblù, sollevato dopo la soluzione del “caso doping” montato ad arte, è ripiombato nello sconforto da tre giorni. Il 4 giugno, nella sede della Lega Calcio, si è fermato per sempre il cuore di Renato Dall’Ara. Il presidentissimo non c’è più, e la sua scomparsa improvvisa suona come una beffa. Proprio ora che tutto era sistemato e il suo Bologna poteva rigiocarsi una chance per lo scudetto, ventitré lunghi anni dopo l’ultima gioia. Aveva lavorato con passione, Dall’Ara, per far rivivere alla società e a tutta Bologna gli antichi fasti. Era passato per annate maledette e altre cariche di speranza, aveva infine deciso di scegliere un tecnico che non amava profondamente, ma del quale sapeva di potersi fidare per la costruzione di una squadra in grado di intimorire gli avversari, com’era successo fino a due decenni prima. Stava per raccogliere i frutti del suo lavoro. E invece se n’era andato così, mentre nel palazzo milanese del calcio stava discutendo animatamente di premi-partita con il suo rivale in questa corsa, Angelo Moratti.

 

Il Bologna, alle cinque della sera di questo 7 giugno che è un bivio per la sua storia, scende in campo anche per lui. Nessuno, nè giocatori nè tecnico, ha potuto prendere parte ai funerali del presidente. La squadra è a Roma ormai da una settimana. Il lunedì prima della grande sfida ha raggiunto il ritiro di Fregene, per abituarsi anche al clima soffocante della capitale. Dopo il dramma, la Lega è stata irremovibile: nessuna possibilità di rinvio. E così è andata, in quell’irreale 5 giugno: a Bologna una folla enorme ha seguito Renato Dall’Ara per dargli l’ultimo addio, a Tor di Quinto la squadra si è infilata nel caldo torrido per l’ultimo allenamento. Tutto questo certamente passa per la testa dei giocatori, di Bernardini, dei ventimila bolognesi che hanno affrontato il viaggio della speranza. Il presidente non c’è più, ma è anche per lui che si va in campo a lottare contro questa Inter che ha appena conquistato l’Europa. Il presidente è vivo, nel cuore e nella mente.

 

Non c’è Ezio Pascutti, nell’undici rossoblù. Il riacutizzarsi di un problema muscolare lo ha messo fuori combattimento. Ci sarebbe Renna, ma Bernardini sa che anche lui è fuori condizione. E allora gioca la carta a sorpresa. Col numero 11 sulle spalle va in campo Bruno Capra, detto Johnny. Un difensore. Non è lì per far gol, ovviamente, ma per incollarsi come un francobollo a Mariolino Corso, che a Bologna, nella gara di ritorno, aveva fatto impazzire i rossoblù. Il gioco funziona. E anche il caldo fa la sua parte: Herrera, sicuro di sè, ha portato i suoi a Roma il giorno prima, mentre la settimana a Fregene ha permesso ai rossoblù di prendere le misure a questa estate bollente.

 

Ventimila bolognesi all’Olimpico. Gli altri in città, a seguire la partita dalle radioline, all’ombra dei portici o nei cortili delle case popolari che stanno sorgendo come funghi in periferia, dove ancora non si è imposta la “cultura del condominio”. La gente si raduna, si conforta a vicenda, si esalta immaginando quello che sta accadendo a quattrocento chilometri di distanza. La città è deserta, immobile, silenziosa. Fino alla mezz’ora della ripresa. Dentro una partita vissuta al ralenty, si accende Fogli. Punizione da fuori area, Bulgarelli tocca e Romanino spara un destro rasoterra che Facchetti sfiora appena. Il pallone si infila alle spalle di Sarti. L’Olimpico esplode, e più a Nord nella penisola Bologna ritrova, tutte in una volta, le sue voci, le sue speranze, le sue certezze.

È l’1-0, ed è la svolta. Il centrocampo rossoblù, rinfrancato, si distende e prende in mano la partita. L’Inter è all’angolo. A stenderla definitivamente ci pensa Harald Nielsen, che fin lì aveva sbagliato tre buone occasioni, su invito di Perani. 2-0, a sei minuti dalla fine. In campo gioca solo una squadra. È il Bologna, ed è campione d’Italia. Per Dall’Ara, per la gloria. Nella storia.

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