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Amarcord – Giovani al fronte: il Bologna e la Prima guerra mondiale

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«Se in qualche affannoso sogno anche tu potessi marciare/dietro al vagone in cui lo gettammo,/e guardare gli occhi bianchi contorcersi nel suo volto,/il suo volto abbassato, come un diavolo stanco di peccare;/se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue/che arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas,/ripugnante come un cancro, amaro come il bolo/di spregevoli, incurabili piaghe su lingue innocenti, –/amica mia, tu non diresti con tale profondo entusiasmo/ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria,/la vecchia Bugia: Dulce et decorum est/ pro patria mori.»[1]

Con questi versi Wilfred Owen concludeva Dulce et Decorum est, poesia scritta nel 1917 mentre si trovava ricoverato al Craiglockhart Hydropathic a causa di un disturbo da stress post-traumatico sviluppatosi a seguito degli eventi vissuti al fronte, tra cui la battaglia della Somme, uno degli avvenimenti più cruenti della Prima guerra mondiale in cui, tra l’1 luglio e il 18 novembre del 1916, persero la vita oltre un milione di soldati. Dimesso alcuni mesi dopo, il giovane poeta tornò sul fronte dove trovò la morte il 4 novembre 1918, esattamente una settimana prima dell’armistizio. Un evento come la Grande guerra, la cui portata era imprevedibile, si pensava, infatti, che sarebbe potuta durare solo pochi mesi, mise tutti i soldati su un unico piano: tutti erano uguali e inermi davanti alla potenza distruttrice della macchina bellica. Giovani di ogni provenienza ed estrazione sociale videro le proprie vite bruscamente interrotte per andare a servire il loro paese e combattere contro degli omologhi che, però, indossavano una divisa differente. Le ideologie difese dagli schieramenti contrapposti erano diverse, ma sul campo di battaglia la situazione dei soldati tra loro nemici era analoga, quasi fossero due lati di un’unica medaglia. Questa similarità di condizioni non bastò a evitare spargimenti di sangue ed enormi perdite di vite, con l’ideologia e la propaganda che ebbero la meglio sull’umanità. La divisione in due schieramenti antagonisti è una condizione necessaria perché possa esistere una guerra, ma è possibile individuare frammentazioni anche all’interno dei singoli fronti: alcune di queste sono di tipo tattico e hanno una finalità organizzativa, come la separazione in unità militari, altre, invece, sono puramente culturali. L’uomo, infatti, ha da sempre creato sottoinsiemi per analizzare il mondo in maniera più specifica o per renderlo più facilmente spiegabile: non è un caso che il concetto di categoria sia stato ampiamente utilizzato nella storia della filosofia, sia esso posto in una prospettiva ontologica, come nel caso di Aristotele, o in una fenomenologica, come per Kant. Categorizzare in un momento di profondo dolore e divisione, come quello rappresentato dalla Prima guerra mondiale e dagli anni immediatamente successivi, potrebbe, quindi, essere stato un processo utile per razionalizzare l’irrazionale e per far sentire parte di un gruppo sia chi fu mandato in pasto a una morte quasi certa sui campi di battaglia, sia chi rimase a casa in attesa. Una delle tendenze più comuni è quella di individuare soldati accomunati da passioni o professioni simili e ricondurli a un unico insieme, come i War Poets inglesi, di cui Wilfred Owen fa parte, o i futuristi italiani, tra cui si possono ricordare Marinetti, Boccioni, Sant’Elia ed Erba, che manifestarono da subito le loro istanze interventiste. Ad accomunare i giovani appartenenti a queste categorie, così come molti altri impiegati nel corso della guerra, fu anche la volontarietà dell’arruolamento: la mancata coscienza di come sarebbe stato realmente un conflitto combattuto con mezzi inediti, l’illusione di una breve durata e il fervore patriottico di inizio ‘900 portarono, infatti, molti a prendere le armi liberamente, ma lo scontro con la realtà fu diverso rispetto alle aspettative. Cinque anni di conflitto logorante lasciarono nell’animo dei combattenti solo disperazione e dolore ed è proprio partendo da queste sensazioni che Owen, citando un ode oraziana, sottolineò come l’idea secondo cui morire per la patria è dolce e dignitoso, altro non è che una bugia ripetuta nel corso dei secoli.

Al termine della Grande guerra venne posta allo Sterlino, lo stadio che dal 1913 al 1927 ospitò le partite interne del Bologna, una lapide per ricordare i quattordici caduti nel corso delle vicende belliche che contribuirono alla storia del Bologna, siano stati essi calciatori o soci. Questo è un esempio di categorizzazione legata allo sport: in un momento in cui il calcio stava ancora muovendo i primi passi e i suoi protagonisti non erano ancora figure nazionalpopolari, i nomi di questi morti sarebbero stati condannati all’oblio, insieme a quelli di altri milioni di morti, se non fosse stato per quella targa. Essa ha permesso a loro, riuniti sotto a un comun denominatore, di essere ricordati e ai loro cari sopravvissuti di sentirsi uniti ad altri nel dolore e avere a loro volta un possibile gruppo di appartenenza nel momento in cui bisognava ricostruire. Quando nel 1969 lo Sterlino venne abbattuto si perse anche la lapide, ma i reperti fotografici ci permettono ancora di leggere i nomi presenti. Tra di essi quelli che presentano vicende più peculiari sono Guido Della Valle ed Ernesto Lino Sala Rosa. Della Valle fu uno dei fondatori del Bologna e poliedrico difensore in grado di ricoprire tutti i ruoli arretrati, compreso il portiere, seppure i tabellini delle partite in cui indossò i guantoni riportarono un ampio passivo. Egli fu fratello di altri due calciatori rossoblù, Mario e Giuseppe e a quest’ultimo è legato da uno destino di sofferenze in guerra, seppur di segno diverso: Guido, infatti, fu un interventista offertosi alla carriera militare, mentre Giuseppe nel secondo conflitto mondiale venne fatto prigioniero in un campo di concentramento tedesco riuscendo, però, a sopravvivere. Ernesto Lino Sala Rosa, anche esso difensore del Bologna nei primi anni ’10, invece, allo scoppio della guerra si arruolò e venne messo di stanza a Lugo, in provincia di Ravenna, da cui era solito tornare, qualora possibile, per partecipare alle partite domenicali dei tornei regionali che sostituirono la Serie A, mantenendo così viva la sua passione e un contatto diretto con la propria città d’adozione.
Raccontare le storie di tutti i quattordici caduti ricordati sulla lapide dello Sterlino sarebbe impossibile, di alcuni si sono perse le vicende, di altri, invece, sono presenti i racconti della condotta in guerra e delle loro morti, sempre celebrate come eroiche e volutamente omesse in questo articolo. L’intento, infatti, è quello di ricordare attraverso questi nomi un’intera generazione di giovani distrutta dalla più atroce delle invenzioni umane e dal condizionamento di quell’antica bugia riconosciuta da Owen. Loro, seppur la lapide non sia più visibile, saranno ricordati, a differenza degli anonimi presenti solo nelle memorie famigliari, fallibili e destinate a estinguersi. La vera partita dei Della Valle, dei Sala Rosa e degli altri celebrati è quella di ricordare, non attraverso il supposto eroismo dei loro gesti, ma attraverso l’umanità delle loro persone, tutti gli altri giovani e agire da monumenti contro l’oscenità della guerra.

 

 

[1] «If in some smothering dreams you too could pace/Behind the wagon that we flung him in,/And watch the white eyes writhing in his face,/His hanging face, like a devil’s sick of sin;/If you could hear, at every jolt, the blood/Come gargling from the froth-corrupted lungs,/Obscene as cancer, bitter as the cud/Of vile, incurable sores on innocent tongues,—/My friend, you would not tell with such high zest/To children ardent for some desperate glory,/The old Lie: Dulce et decorum est/Pro patria mori.»

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