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Amarcord – Lo Schiavio imprenditore
Vivere della propria arte è sempre stato difficile, una fortuna riservata a pochi e che comunque pone in una condizione di stabilità precaria. Studiando le primissime forte d’arte è possibile distinguerne due tipologie differenti: una volta a raccontare storie solo per il gusto di raccontarle, come le pitture rupestri, e un’altra puramente tecnica, come la creazione e la decorazione di vasi o gioielli. Nel primo caso, ovviamente, non esisteva una remunerazione, mentre nel secondo, essendo una produzione di merce, sì. Pensando al periodo greco e romano, invece, è possibile cogliere i primi segni di una coscienza dell’artista come attore sociale indipendente e, quindi, volenteroso di ricevere riconoscimenti e guadagni per i propri prodotti, a prescindere dalla loro possibile utilità pratica. Inserire prodotti immaterici o finalizzati solamente all’essere osservati in un mercato che, indipendentemente dalle forme di governo e di economia presenti, è sempre stato basato sul guadagno e sulla tecnica era, però, una sfida complessa. Poter vivere della propria arte, allora, diventò appannaggio dei ricchi e dei loro protetti: esempi di questa realtà si trovano tanto nella storia, con i circoli romani di Mecenate e degli Scipioni, quanto nel mito greco di Pigmalione. La vita come artista professionista, però, nel migliore dei casi, si basava sulla salute e sugli umori del proprio protettore ed era quindi fortemente instabile. Giovenale, vissuto a cavallo del primo e del secondo secolo dopo Cristo, nelle satire V, VII e IX si lamentava della condizione clientelare in cui era costretto a vivere, caratterizzata dall’umiliazione della sua opera e dalla povertà in cui era ridotto. La condizione nei secoli successivi non è migliorata e la storia è piena di grandi artisti non riconosciuti in vita e costretti a un’esistenza di stenti, uno degli esempi più celebri è Van Gogh, o di altri che hanno potuto vivere del proprio otium perché, come nel caso di Leopardi, ricchi di nascita e non obbligati a sottomettersi alla legge del mercato per poter vivere. Nella storia della letteratura è possibile trovare lettere o testimonianze di tanti scrittori frustrati dal dover sacrificare la propria vocazione per lavorare e così Chaucer e Tasso erano diplomatici, Svevo produceva e commerciava vernici e Pirandello per alcuni anni portò avanti il lavoro del padre come gestore di miniere di zolfo. Questi, però, sono alcuni casi di artisti passati alla storia, ma a questa condizione infausta, spesso, non segue la meritata celebrazione. Ci sono persone poliedriche come Roberto Figazzolo che da decenni svolge la professione di critico, regista e fotografo, con anche una partecipazione alla Biennale di Jinan, dovendo comunque svolgere numerosi e continui lavori, seppur spesso coincidenti con la sua passione, per vivere o Filippo Ticozzi, documentarista premiato al Festival di Venezia, che deve dedicarsi anche all’insegnamento. Scrivere, dipingere, dirigere film, recitare, scolpire, danzare: tutte professioni in cui non è presente una via di mezzo tra i pochi molto pagati e i tanti non riconosciuti.
Oggi appare incredibile che questa situazione nei primi decenni degli anni Trenta appartenesse anche ai calciatori professionisti, oggi una delle categorie più pagate, eppure anche per gli artisti di questo sport era così. Una sorte simile spettò ad Angelo Schiavio, uno dei più grandi giocatori della storia del Bologna, di cui con 242 gol è il miglior marcatore di sempre, e vincitore di quattro scudetti, oltre che del Mondiale 1934. Il padre, infatti, possedeva un negozio di abbigliamento chiamato Schiavio-Stoppani e a esso Angelo si dedicò con profonda dedizione: dopo aver abbandonato gli studi in ragioneria per dedicarsi al calcio entrò anche nell’impresa di famiglia. Questo lavoro gli consentì di guadagnare abbastanza non solo per permettersi la carriera da calciatore, ma addirittura per scegliere di non percepire mai alcun compenso dal Bologna, società a cui lui, nativo del capoluogo emiliano, era profondamente legato. Un aneddoto sul suo legame con la vita d’ufficio vede protagonisti Schiavio e Meazza pochi mesi dopo il trionfo al Mondiale. L’attaccante nerazzurro andò nella sede della Schiavio-Stoppani comunicando al bomber rossoblù che Pozzani, il presidente dell’Inter, avrebbe voluto acquistare lui e Giovanni Ferrari per ricreare il tridente della nazionale: nella proposta era presente anche il trasferimento del negozio in Galleria a Milano, perché tutti erano consapevoli che Anzlén non si sarebbe separato da esso. Il recordman rossoblù non ebbe comunque dubbi e secondo il racconto presente sul sito dell’Associazione percorso della memoria rossoblu Bologna egli rispose «Ancora grazie, presidente. Ma non ho nemmeno misurato quei locali. Tanto ho deciso, io resto a Bologna fino alla fine della carriera. È la mia squadra, è la mia vita. Io in questa città lavoro con la mia famiglia, e gioco con tutta la passione che ho per la mia squadra. Cosa potrei volere di più? I soldi non me li porterò all’altro mondo, e ai miei discendenti, se avranno voglia di lavorare come ne ho io, resterà anche più del necessario. Io resto un giocatore del Bologna». La vita da calciatore e, contemporaneamente, imprenditore in prima persona, ben diverso dalle attività secondarie svolte principalmente tramite deleghe di molti sportivi odierni, adesso non sarebbe più possibile a causa dei ritmi e dagli impegni, oltre a non essere più necessaria. Questo, però, nel mondo del calcio vale quasi esclusivamente per gli atleti di sesso maschile, le paghe molto inferiori e il mancato riconoscimento come professione della controparte femminile, infatti, obbliga ancora le giocatrici a dividere il proprio tempo tra due lavori, uno in campo e uno al di fuori. Angelo Schiavio, oltre a essere stato un giocatore fenomenale, è stato un esempio fortunato di sacrificio professionale per poter seguire il proprio sogno e per questo è lodevole, ma il racconto di Anzlén non deve far passare questa condizione come giusta. Se una persona per propria inclinazione possiede queste due anime e ha la volontà di alimentarle entrambe è giusto che lo faccia, ma la mortificazione di alcune categorie professionali come le calciatrici o, come citato in apertura, gli artisti dovrebbe essere uno spettro del passato, non la realtà attuale. Vorremo molti più Schiavio in campo e molte più persone che come lui scelgono liberamente come autodeterminarsi, non persone costrette a sacrificare la propria persona per un mercato ancora anacronisticamente ostile.
Schiavio-Stoppani oggi non esiste più, ma nello stesso luogo è stata aperta nel 2017 una boutique di abiti e accessori di lusso legati agli anni Venti, gli anni in cui Schiavio incantava le folle bolognesi. Come se certi luoghi, pur cambiando, siano sempre destinati a rimanere sé stessi.
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