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Amarcord – Weisz, da mito a deportato: strumentalizzazione di un’icona
William Golding, premio Nobel per la letteratura nel 1983, affermò che «chiunque abbia attraversato quegli anni senza capire che l’uomo produce il male come un’ape produce il miele, deve essere cieco o avere problemi in testa».[1] Questa sua convinzione, maturata durante il periodo della Seconda guerra mondiale, che combatté in prima persona, è perfettamente esemplificata ne Il signore delle mosche, romanzo in cui dei bambini sopravvissuti a un incidente aereo si trovano a dover ricostruire una civiltà su un’isola deserta dove, invece che a un arcadico sistema di pace, danno vita a un regime totalitario dominato dalla violenza. Secondo Golding l’essere umano è intrinsecamente cattivo e approfittatore, con il male come unico destino. La sua visione pessimistica è sicuramente dettata dalle contingenze della sua vita, ma il paragone tra l’uomo e l’ape è perfettamente calzante con il periodo che verrà affrontato in questo articolo. Parimenti a come le api producono il miele, si potrebbe anche dire che il fascismo, ideologia sociopolitica degradata alla base di un regime totalitario non dissimile da quello rappresentato nel romanzo di Golding, non solo produce il male, ma produce miti. La base del consenso e dell’unione delle masse nei totalitarismi si fonda su alcune precise strategie e una di queste è proprio la creazione di miti: l’esempio più sintomatico è quello di Horst Wessel nella Germania nazista. Soldato delle SA, Wessel venne colpito il 14 gennaio 1930 da un proiettile, sparato da un membro dell’organizzazione armata del KPD[2], a causa di alcune dispute riguardanti una prostituta con cui aveva iniziato a intrattenere una relazione e di cui, forse, gestiva gli affari. Costretto in ospedale, dove morì oltre un mese dopo, ricevette continuamente le visite di Joseph Goebbels, futuro ministro della propaganda, il quale comunicava alla popolazione aggiornamenti costanti sulla sua situazione e, una volta perito, una canzone scritta da lui, Das Horst-Wessel-Lied, divenne il secondo inno del Terzo Reich. Un membro di basso rango delle milizie naziste, grazie alla cronaca della sua agonia e a una strumentalizzazione degli avvenimenti, divenne così un martire del partito nazionalsocialista.
Come detto, anche il fascismo in Italia creò in maniera analoga molteplici miti, a partire dalla figura di Mussolini stesso, rappresentato come uomo di polso, dalla virilità invadente, grande amatore e sportivo: a tal proposito sono emblematiche le sue foto mentre è intento a mietere il grano o a sciare a petto nudo. In questa operazione di mitografia lo sport ha giocato un ruolo fondamentale. Si è già parlato dell’importanza dell’architettura monumentale a fine propagandistico nella riflessione sull’iconografia del Littoriale di Bologna ed è proprio all’interno di questo stadio che prese forma il mito dello squadrone che tremare il mondo fa: il Bologna che tra il 1935 e il 1941 vinse quattro scudetti e il Torneo dell’Esposizione di Parigi nel 1937. Nelle prime tre stagioni a guidare la squadra fu Árpád Weisz, allenatore ed ex calciatore ungherese il cui cognome evidenzia una chiaro legame con la cultura ebraica. Il Bologna di Weisz fu uno di quei miti propagandistici utili al regime, simbolo di un’Italia in grado di vincere anche all’estero, imponendo il suo dominio nel Torneo dell’Esposizione di Parigi contro l’Inghilterra e la Francia, rappresentate da Chelsea e Sochaux, nazioni che, alcuni anni dopo, nella dichiarazione di guerra Mussolini definirà «democrazie plutocratiche e reazionarie». In quella squadra, inoltre, erano presenti giocatori come Schiavio, che vinse il Campionato del mondo nel 1934, e Ceresoli, Andreolo e Biavati che lo vinsero nel 1938. Proprio in quest’ultima kermesse la macchina propagandistica fascista arrivò al suo apice con la finale giocata in divisa nera, invece che azzurra, contro la Francia; in questa occasione, però, la squadra venne copiosamente fischiata dagli antifascisti italiani scappati in terra transalpina. Il Bologna, come detto, fu la squadra simbolo dell’epoca, anche grazie al tifo di Arpinati, membro di spicco del PNF, e ai favori che questo comportava. Un sistema di questo tipo implica una serie sottesa di ipocrisie e una delle più grandi riguardò proprio Weisz, il grande artefice del ritorno alla vittoria dopo sei anni senza scudetti. Egli fu in grado di unire la componente italiana della squadra a quella uruguagia, voluta proprio da Mussolini per poter naturalizzare giocatori e rafforzare la nazionale, e di dar vita al sistema perfettamente funzionale che lasciò in eredità a Hermann Felsner. La permanenza al Bologna di Weisz, infatti, si interruppe nel 1938 con la promulgazione delle legge raziali: egli si dimise immediatamente, in un silenzio generale che tanto ricorda la damnatio memoriae che un altro dei miti fascisti dello sport come Primo Carnera subì dopo la sconfitta contro Joe Louis, e nel gennaio del 1939 lasciò l’Italia in fuga prima verso Parigi e poi a Dordrecht, in Olanda, dove allenerà per due stagioni. L’invasione nazista dell’Olanda nel 1940, però, sancì la fine della sua carriera e, nel giro di pochi anni, della sua vita. Nel 1942 venne portato con la propria famiglia al campo di raccolta di Westerbrock da cui due mesi dopo, separato dai suoi cari mandati a Birkenau dove vennero subito uccisi, fu reindirizzato in un campo di lavori forzati in Alta Slesia e, infine, ad Auschwitz, dove morì il 31 gennaio del 1944.
Così nel silenzio scomparve un uomo le cui vicende sono simbolo delle ipocrisie di un’epoca e di un sistema ideologico, purtroppo, non così lontano.
[1] Traduzione da «I must say that anyone who moved through those years without understanding that man produces evil as a bee produces honey, must have been blind or wrong in the head»
[2] Partito Comunista di Germania
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