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Anche a Trieste batte un Cuore Rossoblù – 13 giu

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Non si è ancora placata l’eco dell’impresa rossoblù di martedi sera e per questo abbiamo chiesto a Lorenzo De Grassi, giornalista triestino, tifosissimo rossoblù da decenni, di raccontarci come ha vissuto e vive l’amore per i nostri colori, vista la distanza fra Trieste e Bologna. Ecco cosa Lorenzo ci ha raccontato…….

Rimanere a casa una sera di inizio estate per vedere alla tv una partita di play-off di serie B. Fatto normale per chi abita intorno alla via Emilia, un po’ meno se a tifare per i colori rossoblù è un giornalista nato e vissuto (quasi) sempre a 300 chilometri di distanza, a Trieste, città che in fatto di calcio vive il suo periodo più buio di sempre e dove tutti nascono e crescono con una seconda passione calcistica: chi la Juventus, chi l’Inter, il Milan e chi… il Bologna.

E per i colori rossoblù negli anni il futuro cronista giuliano sfidò dapprima la pazienza del genitore calciofilo costringendolo a farsi condurre per la prima volta al “Dall’Ara” il 2 giugno 1996, in occasione della partita promozione in serie A contro il Chievo. Un’emozione talmente forte che provocò nel nostro una violenta gastrite che trasformò il festoso viaggio di ritorno a casa in un quasi dramma. E poi negli anni le trasferte “casalinghe” per la coppa Uefa, la semifinale con il Marsiglia, l’Intertoto con il Fulham, il rigore di Marazzina contro il Pisa nel 2008, le tante sfide di A viste dal vivo fino all’ultimo anno, vissuto pericolosamente, fra le speranze americane e gli incubi della realtà cadetta.

Dopo la retrocessione di un anno fa contro il Catania e la settimana di lutto interiore, una frase girava nella sua testa come fosse un ritornello: “Di certo quando ritorneremo in A non festeggerò! Deve essere un fatto normale la A per il Bologna, non una rarità da festeggiare!” “Dicevi così anche nel 2008 e poi hai portato anche la ragazza juventina al Dall’Ara il giorno di Bologna-Pisa e ancora un po’ facevi a tafferugli con lei…” gli fece eco la vocina della coscienza.

E così anche quest’anno, dopo un inizio nel quale si faceva fatica a capacitarsi che quelli che giocavano (e vincevano) contro i rossoblù fossero una squadra dal nome di un fiume, l’Entella, un po’ alla volta ha fatto pace con se stesso e con il telecomando, prima, e dopo il radioso ottobre tacopiniano, anche con la distanza Trieste-Bologna, per la felicità di Trenitalia. Poche soddisfazioni, molti mali di pancia, tanti sospiri e pochi sorrisi, come si conviene in quegli amori schizofrenici in cui l’amata è restia a credere che il tuo sia vero amore, concedendosi a sprazzi fino ad esaurirti, o nella fattispecie fino a farti penare ai play-off. Delusione, rischio, paura, sensazione di nausea e un color marrone che affiora ripetutamente alla testa. Poi però arriva la vittoria ad Avellino che dà quell’iniezione di serenità come una dose di valium dopo una crisi di nervi. Il lavoro chiama e al ritorno non è possibile andare a Bologna. “Ma sì, in fondo è abbastanza decisa la questione” poi la traversa irpina allo scadere ti lascia catatonico sul divano, ma non è niente, assolutamente niente rispetto alla partita di martedì scorso, nella quale per l’ansia a distanza il cronista nel pomeriggio raddoppia i calmanti. E per fortuna, perché altrimenti ora non sarebbe qui a scrivere queste pessime righe. E una volta finita la sofferenza del retour match contro il Pescara via a festeggiare da solo con una cassa di birra ghiacciata, coerentemente con i suoi fermi propositi di un anno fa.

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