Oggi, 365 giorni fa: una consapevolezza che prende coscienza solo ora, la mancanza dell’uomo Sinisa che non vive più accanto a Lei.
Arianna Mihajlovic si è raccontata, ad un anno dalla morte del marito e lasciato alle pagine del Corriere della Sera il suo pensiero personale sul loro rapporto:”I primi mesi, non capivo più nulla, stavo a Roma, dove mi ero stabilita quando i figli hanno iniziato le superiori, e avevo come la sensazione che Siniša fosse ancora vivo e stesse a Bologna ad allenare la squadra».
Già, a Bologna: la prima squadra che ha allenato da primo allenatore e anche l’ultima. Un caso del destino. Ma quell’uomo, suo marito lo sentiva sempre accanto a se (” Sentivo la sua presenza fisica in casa e quasi non sentivo la sua mancanza. Pensi che, nel momento in cui è mancato, ero talmente sotto shock che sorridevo a tutti. Forse, perché perdere mio marito è stato il mio primo lutto. Dopo, per mesi, ho avuto sensazioni da chiedermi se ero pazza“).
Il racconto si fa più profondo e tocca la sfera dei sentimenti, mentre l’immaginazione corre lontana e impone il ricordo, nonostante l’assenza pesantissima da accettare tanto da “sentire delle mani sulle mie mani, proprio delle mani che avvolgevano le mie. E, una notte, l’ho sentito stendersi accanto a me nel letto, ho avvertito il materasso che sprofondava da una parte e continuavo a sentire il rumore delle sue ciabatte“.
Suggestioni che si interscambiavano con la realtà, fino a farle fondere insieme, con il pensiero di Sinisa sempre presente nella sua mente, pensiero che l’accompagna ovunque, giorno per giorno.
Arianna ha vissuto 27 lunghissimi anni con Sinisa Mihajlovic e da lui ha avuto 5 figlii. Ventisette anni in cui ha condiviso tutto, dagli inizi della carriera, quando giocava alla Sampdoria, passando dai suoi successi, quando ha vinto scudetto e coppe, fino agli ultimi allenamenti con il Bologna, la sua ultima squadra.
Si ferma a pensare anche al Sinisa padre (”
Molto paziente e mi ha aiutato tantissimo… La mattina, vestiva le bimbe, le portava a scuola e coi figli giocava tantissimo, gli piaceva giocare“), ai momenti felici in cui la famiglia si riuniva tutta insieme (“
per le vacanze, o per il Natale“) e ai figli che, quattro su cinque, hanno ormai trovato la loro strada (“
Solo il piccolo Nicholas fa ancora il liceo“). Ora è giunto il momento anche per lei di occuparsi di qualcosa, di sviluppare un interesse o crearsi un’occupazione, perchè i figli vedano una donna attiva che si impegna nella cura o creazione di qualcosa.
Arianna sapeva che la malattia di suo marito era terminale, anche se lui negava l’evidenza (” Siniša non leggeva i referti, non guardava su Internet, voleva solo sapere quali cure fare. Ha sperato fino all’ultimo di guarire. Ha lottato come un leone, ha fatto cure allucinanti, due trapianti, una cura sperimentale tostissima“), e lei si è sobbarcata una vicinanza di quasi quattro anni, dove la sofferenza era collante fra i due, soprattutto nei momenti drammatici della malattia (” Ricordo ancora i suoi occhi terrorizzati quando ci hanno detto che aveva una recidiva. Ricordo gli esami che andavano male. Ricordo il rito, tutte le mattine – per un periodo – di fare le analisi e aspettare i referti e, ogni volta, i globuli bianchi che risultavano anomali: ma era un uomo fortissimo, possente, alto, bello. Aveva perso trenta chili e aveva tante infezioni. Vederlo spegnersi piano piano è stato traumatizzante anche per i nostri figli“).
L’ultimo mese è stato il più difficile e il racconto di quel periodo si fa complicato nelle sue parole(“i medici mi hanno detto che sarebbe morto. Non sapevo se dirglielo. Mi sono confrontata con tutti e cinque i figli. Solo con loro, non l’ho detto a nessun altro, neanche a mia madre. Insieme, abbiamo deciso di non dirglielo, per non togliergli quel lumicino di speranza“), come complicata è stata la gestione del suo stato di salute che richiedeva lunghi a periodi riposo a cui lui non voleva assoggettarsi (“L’ho sempre assecondato, era impossibile da fermare. Sono stata giudicata per questo, mi è stato detto: tu sei la moglie, impedisciglielo. Ma per lui il calcio era una medicina. Ovviamente, non è mai andato in campo se non autorizzato dai medici. Stava ricoverato 40 giorni di seguito, ma ha sempre seguito gli allenamenti sul monitor“).
Poi Il 16 Dicembre è stato il giorno più brutto, giorno a cui non ci si arriva mai preparati: una settimana prima aveva avuto una emorragia a casa (“Qualche giorno prima, si è svegliato con un principio di emorragia. Gli ho prestato le prime cure come mi era stato insegnato, ho chiamato l’ambulanza, ma lui non voleva salirci, voleva andare in ospedale con le sue gambe. Per giorni, io e i figli gli siamo rimasti accanto a turno e la cosa struggente è che l’ultimo giorno, invece, eravamo tutti lì. I figli erano nella stanza accanto, c’ero io, sua madre, suo fratello con la moglie, il suo miglior amico, mia madre. Quando mi sono resa conto che il suo respiro è cambiato e che mancava poco, ho chiamato i ragazzi. Eravamo tutti in silenzio attorno a lui. Gli ho tenuto la mano, l’ho visto lottare col respiro sempre più pesante. Mi è venuto da dirgli: vai, non ti preoccupare, ai ragazzi ci penso io. Solo a quel punto è spirato. Fino ad allora, nessuno di noi aveva pianto. Lo stile di famiglia è tenersi le cose dentro, ma lì ci siamo abbracciati tutti. È stato un momento m
olto forte. Nella stanza, si è percepita come una botta di energia. È stato brutto, ma in qualche modo bello“).
Certe cose rimangono sospese in quei momenti e si rimpiangono le parole che sono rimaste in gola, parole che sarebbero state piene di sentimento (“
Avrei potuto dirgli tante volte tante cose che davamo per scontate. Se ho un rimpianto, è per le parole che non gli ho detto. Su quanto gli sono stata vicina no, rimpianti non ne ho. Infatti, l’ultimo giorno, mi fa: quanto sei forte. Lo sono stata e sempre con il sorriso. Poi, magari, tornavo a casa e piangevo“).
Una vita spesa insieme, all’insegna dell’amore e della reciproca comprensione,fatta di tantissimi momenti, dove le figure dell’uomo, del marito, del padre, del calciatore e allenatore si fondono insieme: e proprio a questa ultima figura va l’ultimo ricordo di questa intervista. (” Quando il 25 agosto 2019 è andato alla partita contro il Verona, si è messo le scarpe, tremava, aveva l’affanno, ma è andato“). Ed è uno dei più bei ricordi che noi avremo, per sempre, di Sinisa Mihajlovic.
(FONTE Candida Morvillo – Corsera)
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