Bologna FC
Fuffo – Thiago: un filo rossoblù lungo sessant’anni (Stadio)
Sono passati sessant’anni anni di calcio fra il grande Bologna di Fuffo Bernardini e questo Bologna di Thiago Motta. Ma le analogie tra i due sono più di quanto si possa pensare.
Il dialogo con il passato è spesso la chiave per capire il futuro. L’ultima volta che il Bologna si qualificava in Champions League, o meglio in Coppa dei Campioni, era il 1964. Esattamente sessant’anni fa. Sulla panchina di quella squadra sedeva un allenatore con delle idee precise e difficili da cambiare. Un uomo chiaro e perentorio, molto colto, soprannominato il “Dottore”, che non lesinava critiche alla società qualora ce ne fosse bisogno. Vi ricorda qualcuno?
Bernardini e Motta: lontani nel tempo, ma vicini nello spirito
L’uomo di cui parliamo è Fulvio Bernardini. Artefice del primo vero miracolo Bologna e primo allenatore a vincere lo Scudetto in due piazze diverse, Bologna e Firenze tra l’altro. Capace di esibire un calcio elegante che portò a risultati incredibili. Allo stesso modo Thiago Motta ha espresso il calcio migliore della Serie A, forse secondo solo all’Inter, ottenendo un risultato fuori da ogni possibile entusiastico pronostico. Ma l’impresa assume un carattere ancora più sensazionale se si pensa da dove si è partiti: l’estate scorsa, a Utrecht, l’allenatore aveva sparato a zero su una società che non gli aveva ancora fornito una rosa adeguata.
Di Bernardini si raccontava del rapporto complicato tra il presidente Dall’Ara, più casereccio nei modi, e Fuffo, più legato a un mondo benestante e misurato. Ma nonostante questo, seppero collaborare per costruire un grande Bologna. Immaginare che Thiago abbia rifiutato gli inviti di Saputo per una partita a briscola, così come succedeva sessant’anni fa, è un quadretto divertente, ma chiaramente frutto di fantasia. Però resta il fatto che alcuni aspetti del carattere del suo allenatore siano stati difficili da comprendere per il presidente, ma Saputo ha dimostrato di essere disposto a tutto per metterlo nella condizione di esprimere il suo calcio ad alti livelli.
Il Motta allenatore
Fare di testa propria
Motta, detto “El Profe”, è un personaggio complicato, non sempre intellegibile, ma estremamente preparato. Tutto ciò che pensa, assimila e poi propone sul campo è frutto di una preparazione certosina che gli ha permesso di indovinare delle scelte che, forse, un altro allenatore non avrebbe avuto il coraggio di tentare. La staffetta Skorupski-Ravaglia, ad esempio. Vilipesa, ma che ha pagato. Perché Motta, come Bernardini, fa di testa sua. Ma lo si comprendeva dall’inizio della sua carriera da allenatore, quando il suo curriculum parlava “solo” di vittorie da calciatore, di tante idee e di uno straripante carisma. Ma rimboccarsi le maniche vuol dire anche avere la forza di proporre quelle stesse idee e così in una tesi all’esame federale, in cui aveva citato Freud e Galimberti (cultura come qualcuno), aveva ricordato che alla base di tutto c’è il pallone e solo atleti che non sono a disagio con il pallone possono diventare dei calciatori brillanti.
Bernardini, invece, disse: «Prima si insegna ai giocatori il calcio vincente, poi si pensa alle strategie e alle tattiche». Forse parlare di continuità diretta è pretestuoso, ma il collegamento è evidente.
Come Bernardini
Anche Fuffo, come abbiamo potuto vedere, faceva di testa sua. Se ne fregava delle critiche settentrionali e legate al risultato di Brera. Faceva il suo calcio con orgoglio e passione. Se Motta non ha mai fatto intendere le sue scelte di formazione, costruendoci una sorta di mistica giornalistica, sarebbe gravissimo dimenticare chi lo fece la prima volta. Proprio Bernardini e nientepopodimeno che nello spareggio Scudetto del ‘64 contro l’Inter: fuori Pascutti e dentro Capra. E allora non c’erano le sostituzioni, quindi il rischio di rivolta in caso di sconfitta era reale.
Ma alla fine ebbe ragione lui. Come ha avuto ragione tante volte Motta in questa stagione. Bernardini, dalla sua, ebbe anche la possibilità di dichiarare il proprio manifesto della panchina. In una memorabile intervista condotta da Enzo Tortora spiegò che per essere un grande allenatore bisognava aver giocato a un buon livello, possedere il senso del comando e, soprattutto, avere la qualità rara dell’essere psicologo.
Ciò che più sorprende è la quantità di punti di contatto. Il manifesto dell’allenatore di Bernardi va a raccontare quasi per filo e per segno le modalità espresse da Motta: la psicologia, con Galimberti e Freud già citati; il carisma, prima della tattica; Motta si è caricato la squadra sulle spalle, assorbendo tutte le domande sul futuro, accentrando su di sé le, poche, critiche e dando sempre il merito ai giocatori per i successi.
Fonte: Daniele Labanti – Stadio
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