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Il sorriso di Mattia

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Non è ancora ufficialmente una “buona notizia”, ma potrebbe diventarla: Mattia Destro ha ritrovato la voglia di giocare. So di fare un torto ai colpevolisti in servizio permanente effettivo, quelli che prima era colpa di Donadoni e poi era colpa di Inzaghi, ma quello di Destro è il classico caso a cui applicare un antico motto portato alla notorietà – seppure in forma più complessa – da Dante Alighieri: “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”. Non so se Mattia, durante queste lunghe settimane (un centinaio, all’incirca) di latitanza, abbia realmente pianto, ma credo proprio di sì. Per capire questa mia sensazione, bisogna sapere “chi era” Mattia Destro prima che entrasse in… clandestinità. Mattia cresce nel Settore Giovanile dell’Ascoli, quindi a casa sua, poi a 14 anni intraprende il viaggio della speranza verso Milano, destinazione Inter. Il padre, Flavio, era un decente difensore e, pur essendo cresciuto nel generoso vivaio del Torino, mai ha respirato l’aria dei quartieri nobili del nostro calcio. Come quando un tempo si festeggiava il primo laureato in famiglia: grande euforia, orgoglio, curiosità e qualche timore nell’affrontare la Grande Avventura. In nerazzurro vince lo scudetto Giovanissimi e quello Allievi, oltre al Torneo di Viareggio, ma non debutta in Serie A. La Beneamata (inutile che v’incazziate: è il soprannome dell’Inter…) lo gira al Genoa che lo fa esordire: ha 19 anni, l’età giusta per esplodere.

La stagione successiva, 2011-12, va al Siena, sempre in A, e lì mostra per intero il suo repertorio. È, a vent’anni, uno dei migliori attaccanti italiani: in prospettiva, la maglia azzurra sarà sua o di Mario Balotelli (sigh). E infatti il debutto in Nazionale arriva il giorno di Ferragosto del 2012, pochi giorni dopo il suo trasferimento alla Roma. Ha 21 anni, un carattere chiuso, tanti sogni nel cassetto che però nessuno – al di fuori della sua ristretta cerchia – conosce perché lui è così: parla poco o niente, non concede interviste, se ne sta sulle sue. In campo fa il suo dovere (24 gol in 57 partite vi sembran pochi?), eppure non entra mai nel cuore della tifoseria né – immagino – in quello dello spogliatoio. Ha un contratto quinquennale, ma dopo due stagioni e un girone d’andata la Roma lo cede al Milan. Dove rimane sei mesi, per poi passare al Bologna. In rossoblù parte bene, però dopo le prime due stagioni, fra un infortunio e un’incomprensione, poco alla volta si eclissa. Ricapitolando: i tifosi della Roma arrivano a festeggiare la sua cessione, quelli del Milan a malapena lo ricordano.

Eppure è un ottimo attaccante, quindi un teorico oggetto del desiderio per club di ogni latitudine. Non è amato perché è schivo, è schivo perché non si sente amato e quindi perde stimoli: il gatto che si morde la coda è roba da ridere. Mihajlovic lo ha stimolato, applaudito e… minacciato: “Gli sto facendo capire che deve cambiare atteggiamento ed essere meno molle. Si allena bene e ce la sta mettendo tutta, oggi ha fatto ciò che gli avevo chiesto sia in fase offensiva che in fase difensiva. Bravo, ma è solo il primo passo verso il suo recupero”. Il burbero Sinisa ha riassunto molto bene la situazione: basta arrendevolezza, vai là fuori e prenditi quello che ti spetta. Io, nel frattempo, ho rivisto sorridere Mattia, e questo è un bell’indicatore. E fra una settimana mi piacerebbe che mostrasse il suo sorriso pure a quella tifoseria che non l’ha mai amato…

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