Bologna FC
L’inaDieguato – Il Mio Calciomercato – 16 Luglio
Il calcio mercato del Bologna di alcuni decenni fa, visto da una delle più virtuose penne del nostro giornalismo bolognese: Diego Costa. Un pezzo di amarcord all’ennesima potenza. Buona lettura.
Ero poco più di un ragazzino e l’estate coincideva con il periodo più divertente per leggere i giornali. Il calciomercato. Più divertente, pieno di speranze ma anche di paure. La stagione era stata attraversata da ombre e luci, ormai il Bologna non riusciva più a lottare in cima come era successo solo pochi anni prima. Eppure per un ginnasiale era la squadra più forte del mondo. Scandivo meglio le formazioni delle desinenze greche che la terribile professoressa Cavalieri pretendeva recitassimo a memoria: mai, sai tai, thon then, meza, ze, nthai! Meglio: Buso, Roversi, Cresci, Caporale, Bellugi, Maselli, Ghetti, Pecci, Savoldi, Massimelli, Colomba. La mia maggiore paura era che il presidente Luciano Conti – non me ne voglia la sua anima se dico che lo considero colui che ha commesso il peccato originale del lento e inesorabile declino del Bologna da squadra nobile a club borghese e anonimo – vendesse Beppe Savoldi. Beppe-gol era l’idolo. Le emozioni maggiori venivano dai suoi gol, dagli stacchi di testa imperiosi e da quando danzava sul pallone con entrambi i piedi liberandosi in scioltezza, magari sulla linea di fondo, del diretto avversario. Io e gli amici più cari di quell’adolescenza vissuta a pane e pallone, amici bolognesi frequentati sui monti, Paolo e Andrea, trascorrevamo il mese di luglio riempiendo di slogan le stradine di San Vigilio di Marebbe e solo oggi immagino lo stupore dei cittadini del luogo nell’ascoltare parole così incomprensibili: “Conti ricorda che Beppe non si vende!”
Sì, il calciomercato – come oggi – occupava lo spazio che il cervello di un tifoso destina alla speranza. E se venisse quello? E se prendessimo quell’altro?
A giugno, per riempire il tempo delle non notizie (quante ce ne sono ancora oggi!) e delle voci che creano e distruggono illusioni, il sottoscritto sapeva come fare. Primo: appropriarsi del giornale sportivo il prima possibile, meglio se la notte stessa (quindi in prima edizione); secondo: fare uso di prezioso quadernino ove cominciare a scrivere le possibili formazioni-base delle squadre di serie A. E lasciar volare l’immaginazione. Ne scaturivano così favorite per lo scudetto, outsiders, altre ed eventuali. Il Bologna non aveva mai – fino ad allora – conosciuto il rischio della retrocessione, danzando tra il centroclassifica e il ruolo di ancella delle prime, come era logico accadesse a una nobile da poco decaduta. Ne soffrivo un po’, sebbene durante l’anno ci togliessimo sempre la soddisfazione di battere qualche Grande, ma mi bastava almeno salvare il blasone signorile. E cioè l’essere annoverata, fino ai primi Anni Ottanta, tra le squadre di calcio italiane mai precipitate nel purgatorio della serie B.
Il ragazzino tifoso rossoblù passava così le ore prima di addormentarsi, ma anche quelle della canicola del giorno dopo, ad appuntare sul quaderno i nuovi schemi, le nuove formazioni, cercando di indovinare chi dei vecchi, il nuovo arrivato, avrebbe scalzato. E questo non solo per il Bologna ma per tutte le protagoniste della massima serie.
Oggi leggo con fredda logica l’operazione di smantellamento scientificamente operata da Conti. Oggi che si contesta Guaraldi… beh, io contestavo Conti. In modo rispettoso, si fa per dire, ma quel presidente non faceva nulla ai miei occhi per rendersi simpatico. Oggi capisco che quel presidente aspettò la pensione di Giacomo Bulgarelli per avviare la più assoluta campagna di azzeramento che il Bologna calcio abbia mai avuto. Almeno fino al fallimento e ai giorni più bui. Si era a metà degli anni ’70. Conti, che in principio di mandato era stato protagonista di un acquisto che aveva fatto sperare, quello di Bellugi dall’Inter, smantellò poi la formazione tipo. Via Buso, l’eroe di coppa, via Roversi, via Caporale, via Gregori, via Pecci e via Ghetti, via Savoldi, via Landini. Rimase Cresci, e pochi altri. Arrivarono il buon vecchio Cereser, tornò Clerici, e poi Vanello, Rampanti e quel Bertuzzo, che era stato capocannoniere in B col Brescia, cominciò alla grande segnando al Toro di Eraldo e Caporale, destinato allo scudetto (unico ko esterno della squadra di Radice in quel magico anno): e poi si eclissò.
Conti speculò insomma sull’enorme affetto della città verso la sua squadra. Grande, ma non abbastanza per riempire lo stadio negli anni delle vacche grasse, almeno gli ultimi, quando appunto il Bologna era diventata una squadra di seconda fila. Si accorse, di lì in avanti, cioè, che, dando ai bolognesi i brividi della lotta per non retrocedere, avrebbe riempito il Comunale, destinato altrimenti a restare semideserto o comunque non pieno. Si lasciò persino scappare una battuta, il re del materiale elettrico e del tavolo da gioco: meglio comperare un arbitro e salvarsi in extremis anzichè svenarsi per certi calciatori.
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