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L’inaDieguato – Il mio percorso della Memoria – 4 Giugno

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L’idea della “gita” in Certosa alla ricerca dei nostri eroi e dei loro avi mi fa venire in mente “Fields of dreams”, film di Phil A. Robinson del 1989 che abbiamo in Italia tradotto con il titolo L’uomo dei sogni. Perchè lo spirito con cui i cuori rossoblù si aggireranno tra le croci e le lapidi della Certosa (a proposito: sorge dov’è perchè, all’inizio del secolo scorso, alcuni scavi portarono a scoprire una necropoli etrusca) non sarà diverso da quello del Kevin Costner che attraversa il campo di granoturco fino a sentire una voce che gli sussurra: “Se lo costruisci, lui tornerà”. 
Sarà come ritrovare amici che non ci sono più ma che hanno fatto la storia del Bologna Football Club, quando il club contava fino a essere “Lo squadrone che tremare il mondo fa”. Davvero si potrà stare con chi giocava come in paradiso. Anzi, ora ci gioca per davvero. 
Chiudendo gli occhi li si potrà vedere nelle divise di gioco, salire la scaletta o uscire dal tunnel che porta sul campo di gioco. Proprio come i White Sox che giocano con l’uomo che balla con i lupi. 
Io ne voglio citare alcuni che ho conosciuto personalmente e che conservo nel mio cuore, non solo per i colori d’ordinanza dei ventricoli e degli atrii. 
Il primo: Raffaele Sansone. Elegante eppure semplice, detto farfallino per la passione per la cravatta “papillon”. Ho conosciuto tutta la famiglia di Faele. Un uruguagio di quelli che hanno consacrato a Bologna la loro vita, senza rincorrere quindi il profumo di più soldi. Anche perchè Faele a Bologna trovò l’amore, dietro la vetrina della gelateria La Torinese. Olga era bellissima, ma – pensate che tempi – che uscisse con un calciatore non era decoroso. Raffaele s’innamorò, poi di fronte alle difficoltà della famiglia di lei, in un primo tempo cedette. Pensò di far ritorno in Uruguay. Lo fece, finchè il cuore non lo riportò su queste rotte. Con un chiaro obiettivo, quello di essere rossoblù a vita e di sposare la sua Olga. Detto e fatto. A Faele non si devono solo grandi giocate sul campo, ma anche intuizioni di mercato, quando smise. Faele che era amico di Hector Puricelli, testina d’oro. Faele che vide per caso un certo Helmut Haller si impuntò perchè il Bologna lo comperasse.
Il secondo: Medeo Biavati. Ala campione del mondo, suo il copy-writer del doppio passo, finta ora moltiplicata da Cristiano Ronaldo. Biavati era come il portoghese alla sua epoca, con quella finta e la velocità ubriacava gli avversari. L’ho conosciuto sessantenne, allenatore dei Veterani del Bologna (torneo meraviglioso, con tanti campioni che ancora facevano faville), uomo delicato, garbato, gentile, con l’umiltà che è propria dei più grandi. Datemi retta: in qualsiasi campo si cimentino, arroganti e petulanti non sono nulla. Compresi i commentatori. 
Il terzo: Beppe Vavassori. Venne qui dalla Juve, in parabola di carriera discendente. Non solo fece bene, erede di Carburo Negri, divenne bolognese d’adozione. Ne ricordo la signorilità assoluta. Una classe aristocratica che si traduceva in un’educazione e un rispetto degli altri che mi conducono a un solo aggettivo: esemplari. Giocava alla grande a tennis, per lo più al Felsineo ma anche alla Virtus tennis dove lo si poteva trovare impegnato in accaldate partite a carte. Giocava alla grande anche come mezz’ala. Difetti? Un accanito fumatore, purtroppo. 
Il quarto è Giacomino Bulgarelli. Da bambino ricordo che aspettavo con ansia i miei campioni per vederli salire dalla scaletta del Comunale che portava al campo di calcio e poi aspettavo di sentire il saluto urlato al capitano, la dedica di Gino Villani (un altro spirito che in Certosa ci sarà) a Giacomino nostro. L’altro ricordo personale è una partita allo stadio contro i veterani rossoblù. Ero un ragazzino e correvo molto, quella sera Giacomino, che aveva smesso da poco (avrà avuto poco più di 40 anni) mi tolse il fiato. Dettava il gioco ai compagni, giocava di prima, impossibile portargli via il pallone. La foto che feci con lui prima dell’inizio la conservo gelosamente. Quando poi lo conobbi per motivi professionali, mi dava una tale soggezione… che poi probabilmente riportavo male quello che mi aveva detto. Mi è capitato solo con lui e con Lucio Dalla. Una sera lo vidi ospite in tv alla Domenica sportiva e rimasi pietrificato. Presi il telefono e chiamai Giorgino Comaschi. Giorgio, hai visto Giacomo? Ma sta male? Lui mentì, sapendo di farlo. Non era la mia una curiosità giornalistica, mai avuto certi “pruriti”, solo una preoccupazione d’amico e d’affetto. 
Il quinto, ma non il meno importante: Tazio Roversi. Con lui ho pure giocato a pallone. Sono stato il primo a chiedergli un autografo, a margine di una partita del trofeo De Martino, quello riservato alle riserve di serie A e naturalmente alle promesse e ai convalescenti. Avevo sette anni, lui forse raggiungeva la maggiore età. Forse no. Suscitai così lo scandalo di taluni tifosi, chiedere l’autografo a un imberbe signor nessuno della Primavera. “Il biondo” mi ha poi riscattato alla grande, marcando fior di attaccanti, da Pulici a Gigi “Rombo di Tuono” Riva. Il tempo e la frequentazione ha detto che gli avrei chiesto l’autografo anche come semplice espressione dell’umanità. Tazio è stato enorme, e sono stato stretto, per spessore umano. Tazio che, ammalato, si recava nelle stanze degli altri a portare conforto. Tazio che staccò la spina col calcio perchè la malattia poteva presentarsi d’improvviso e traumatizzare i giovani che allenava. Tazio che, secondo di Cadè, mi dette l’occasione – alla fine della strepitosa cavalcata di serie C – di sedere sulla panchina del Bologna che giocava un’amichevole ufficiale. Per me fu come entrare in campo con i miei eroi prima di una finale di Champions. Anzi, forse di più. 
Eccoli, ve li ho citati, in ordine sparso. Forse li vedete ora, uscire dai portici della Certosa, con la maglia bianca e le strisce trasversali rossoblù. Ce ne sono altri ancora: Sergio Buso, Fiore, Stefano, Eneas, Helmut, Gino Cappello. Anche per loro ci sono aneddoti e ricordi. Li rimando alla prossima. Tutti comunque vivi, nel nostro cuore e nella nostra memoria. Nella nostra gratitudine.

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