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Oriundi in nazionale, sì o no? Il dietrofront di Mancini
Nel 2018, ai Mondiali in Russia, 8 giocatori della Germania campione del mondo in carica avrebbero potuto giocare con la maglia di un’altra nazionale: Tah, Rudiger, Boateng, Khedira, Ozil, Sané, Gomez e Gundogan. Tedeschi e francesi, si sa, attingono e continuano ad attingere da giocatori nati nel paese seppur con provenienza a larga maggioranza turca, come nel caso dei teutonici, o africana nel caso dei francesi. Lo stesso Zidane sappiamo tutti essere di origine algerina, ma anche Michel Platini è figlio di genitori italiani, originari di Asti. In Germania, tutto cambiò nel 1999, grazie a una legge secondo la quale i nati dopo il 1 gennaio 2000 da genitori stranieri, ma residenti in Germania da almeno 8 anni, avrebbero ricevuto la cittadinanza tedesca.
Esattamente sei anni fa, nel marzo 2015, Roberto Mancini, in quel momento allenatore dell’Inter per la seconda volta nella sua carriera, aveva le idee chiare a tal proposito: “La nazionale deve essere italiana, niente oriundi”. In quel momento sulla panchina della nazionale c’era Antonio Conte che convocò Eder e Vazquez per un doppio impegno con Inghilterra e Bulgaria. Oggi, l’attuale ct della nazionale, per gli impegni contro Irlanda del Nord, Lituania e Bulgaria ha chiamato Rafael Toloi, un altro oriundo della lunga stirpe azzurra inaugurata da Eugenio Mosso, argentino di Mendoza che vestì la maglia dell’Italia nel 1914 in una partita contro la Svizzera. Sivori, Altafini, Camoranesi, ma anche Luis Monti e Renato Cesarini, sì, quello della zona. Oriundi e bravi, anche se i successi italiani, eccetto per Camoranesi, hanno una impronta alquanto autoctona.
Mancini ha premiato la qualità, che vince sempre sulle ideologie personali. Il bene di un gruppo e di una squadra è sempre al primo posto, e quelle parole di 6 anni fa riviste oggi stridono con l’operato del CT. La questione degli oriundi è assai complessa, seppur i tedeschi nel 2014 con quella truppa di naturalizzati ci abbia vinto un Mondiale. Il nocciolo di una questione così importante non può restare confinato alle cose di campo, ma trascende certamente al tessuto sociale e ai valori di un paese. “Non ci sono negri italiani” era il coro più in voga quando Mario Balotelli si avvicinava alla maglia azzurra, che poi ha indossato con esiti alterni, come d’altronde è stata tutta la sua carriera.
Ecco, in quel coro, deprecabile, è rinchiusa gran parte della arretratezza italiana. Nei giorni in cui si parla ancora delle squadre italiane incapaci di far bella figura in Europa, e a quasi tre anni di distanza dall’esclusione, prima volta dal 1958, da un campionato del mondo, si tirano ancora in ballo i “pochi giovani” ma soprattutto i “troppi stranieri”. Sulla prima questione, certamente veritiera, bisogna anche dire che La naturalizzazione, ovviamente, va accompagnata dalla qualità: resta sovrana, al di là del ceppo di appartenenza. E Toloi va in questo senso, così come anche Sivori o Camoranesi avevano indubbie doti balistiche. L’Italia però deve sgrassare quella patina di ottusità, di provincialismo mentale e di chiusura verso quello che altre nazionali, come detto, hanno già fatto. Naturalizzare e aprirsi a un mondo più globale, dove gioco forza non sono più gli anni in cui l’unica migrazione possibile era quella dal sud al nord, con i venti di razzismo del “Non si affitta ai meridionali” appeso in tante case del settentrione, e molti paesi lo hanno capito molto prima di noi. Nel 2013, sulla Gazzetta dello Sport, Franco Arturi dava la chiosa alla questione: “Il problema non sono un paio di oriundi, ma migliaia di nuovi italiani Under 18 sprovvisti di nazionalità, cosa che impedisce loro di fare sport e impegnarsi per il loro nuovo paese, un diritto sacrosanto”.
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