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Sinisa Day – Il periodo del Vojvodina e della Stella Rossa
SINISA MIHAJLOVIC: Prima c’è sempre il cuore …
“Quando arrivò da noi nell’estate del 1990 lo conoscevamo già benissimo. Poco più di un anno prima (era il 19 di aprile) feci la trasferta a Novi Sad per seguire la mia adorata Stella Rossa contro il Vojvodina, la squadra dove giocava all’epoca. Ero già uno dei delije, i tifosi più caldi e scatenati, anche se avevo solo 17 anni all’epoca. Ci stavamo abituando bene a quei tempi. Avevamo vinto il titolo l’anno prima e sinceramente non vedevamo grandi team in grado impensierirci per la conquista del titolo.
I nostri rivali del Partizan ci avevano reso la vita dura nella stagione precedente, ma mentre noi eravamo una squadra in crescita loro erano in fase discendente.
In quella stagione però spuntò fuori dal nulla proprio il Vojvodina.
L’anno prima erano nei bassifondi della classifica e nessuno dava loro troppo credito.
Invece si stavano rivelando degli avversari tosti.
Quando andammo a Novi Sad quel giorno sapevamo fin troppo bene che avevamo un solo risultato a disposizione: la vittoria. Il Vojvodina stava viaggiando a gonfie vele e, anche se c’erano altre otto partite da giocare, non potevamo perdere altro terreno.
Fu quel giorno che mi accorsi di quanto era forte Sinisa Mihailovic.
Giocava con il numero 7 e aveva i capelli lunghi e ricci.
Teoricamente avrebbe dovuto giocare a sinistra, nel centrocampo dei nostri avversari.
Così almeno ci avevano detto.
Invece lo trovavi dappertutto.
Si inseriva senza palla, recuperava palloni, apriva il gioco con lanci di trenta-quaranta metri.
Il primo gol fu in gran parte merito suo.
Stavolta si era inserito dalla destra e la sua cannonata di sinistro fu respinta in qualche modo dal nostro portiere Davidovic … purtroppo per noi, proprio sui piedi di Vujacic che non aveva avuto difficoltà a mettere il pallone in porta.
Di quella partita ricordo anche che nel finale, con il risultato ormai sul 3 a 1 per il Vojvodina, in un’azione di contropiede, Mihailovic si fece 40 metri di campo per seguire l’azione. Quando arrivò in area gli arrivò un perfetto cross dalla sinistra e il suo colpo di testa finì fuori di pochi centimetri.
Tutti sapevano che era un grande tifoso della Stella Rossa, ma al termine di quel campionato non se ne fece nulla. Anche perché con il Vojvodina, che doveva giocare la Coppa dei Campioni, sarebbe stato difficile portare via loro il giocatore più promettente.
Sapevamo anche che da ragazzino aveva fatto un provino per il Club, ma fu scartato dal capo dei nostri osservatori, il signor Kule Acimovic.
Ti aspetti che chi fa quel mestiere sappia riconoscere uno bravo anche quando gioca male …
Fu invece molto vicino a firmare per i nostri rivali della Dinamo Zagabria.
Giocò anche un torneo in Italia con loro ma alla fine non se ne fece nulla.
Per nostra fortuna !
Poi, nel dicembre del 1990, arrivò finalmente da noi.
Per le casse della Stella Rossa fu un autentico salasso !
Ricordo che qualche tifoso storse il naso quando venne resa ufficiale la cifra.
… qualcuno che evidentemente non era quel giorno a Novi Sad.
Personalmente ne ero felicissimo e bastò molto poco, anche ai dubbiosi, per rendersi conto che Sinisa Mihajlovic era esattamente quello che mancava a questa squadra per fare l’ultimo, decisivo salto di qualità.
Era un vincente nato.
Non mollava mai.
Indipendentemente dal risultato, dal suo stato di forma o dalla giornata di grazia o meno.
In un centrocampo di abili fiorettisti come Jugovic, Savicevic e Prosinecki il buon Sinisa era la spada, quello che metteva forza e cuore nelle giocate. E poi aveva quel sinistro con cui faceva davvero quello che voleva.
Aveva carattere.
Uno che non le mandava a dire.
Nemmeno da ragazzo, che fossero avversari, compagni di squadra o allenatore.
In campionato fu quasi una passeggiata e a marzo avevamo già praticamente chiuso i giochi. Ora potevamo concentrarci sull’andare a prendere quello che molti di noi erano convinti sarebbe già dovuto essere nostro due anni prima … se non fosse stata per quella maledetta nebbia che decise di avvolgere Belgrado proprio mentre stavamo battendo chi quel trofeo lo vinse pochi mesi dopo: la Coppa dei Campioni.
Nei quarti di finale ci toccò la Dinamo Dresda ma anche qua fu poco più di un allenamento. Vincemmo tre a zero al Marakana e a Dresda, mentre eravamo tranquillamente in vantaggio per due reti ad una, i loro tifosi decisero di bombardare di oggetti il nostro povero Prosinecki, mentre si stava apprestando a battere un corner. Partita sospesa e tre a zero per noi anche stavolta, anche se a tavolino.
Arrivammo in semifinale.
Quel giorno Sinisa Mihajlovic fu determinante.
Il Bayern Monaco era uno squadrone da fare paura.
Thon, Effenberg, Brian Laudrup, Kholer, Ziege, Augenthaler … non avevano un solo punto debole.
Era la terza volta che raggiungevamo una semifinale di Coppa dei Campioni, ma entrambe le volte eravamo caduti su quest’ultimo ostacolo prima della finale.
La Fiorentina nel 1957 e i greci del Panathinaikos nel 1971.
Al Marakana contro il Panathinaikos vincemmo 4 a 1. Ci sentivamo già in finale, poi riuscimmo nell’impresa di perdere 0 a 3 a casa dei greci che andarono in finale contro l’Ajax.
Mio padre, dopo quella partita, per più di un anno non volle più guardare una partita di pallone.
Con il Bayern non eravamo certo i favoriti, ma sapevamo di avere delle ottime carte da giocare.
Nel match di andata, in Germania, eravamo in più di 20.000.
Non fu una trasferta, fu un esodo.
Andammo in svantaggio dopo poco più di venti minuti, ma reagimmo alla grande. Due capolavori ci diedero la vittoria. Uno corale chiuso a rete da Pancev e una giocata individuale di Savicevic che si fece mezzo campo, palla al piede, prima di trafiggere Aumann con il suo sinistro fatato.
Due a uno per noi.
Finì così. Ora non restava che “chiudere” la pratica nel nostro Marakana.
Eravamo in 80.000 dentro, più di 7 milioni di serbi erano fuori ad assistere alla partita in televisione.
Fu proprio Sinisa ad allentare la tensione dei giocatori in campo e di tutti noi sugli spalti.
Savicevic, dopo aver saltato in slalom mezzo Bayern Monaco, viene steso inesorabilmente.
La punizione è a 30 metri dalla porta. Trenta metri, per Sinisa, sono meno di venti per un calciatore normale.
Il suo tiro è forte e anche ad effetto. Aggira la barriera e si spegne nell’angolino, alla destra di un immobile Aumann.
Da quel momento è un monologo.
Giochiamo un calcio di una qualità tale che non avevo mai visto prima e che, almeno nella mia terra, so che non rivedrò mai più.
Al termine del primo tempo potremmo … mi correggo, DOVREMMO essere almeno sul 4 a 0.
Pancev sbaglia un paio di ghiotte occasioni, Binic solo davanti ad Aumann calcia a lato, Savicevic salta come birilli tra avversari e quando deve solo spingerla in rete perde l’equilibrio e calcia fuori anche lui.
Nel secondo tempo la stessa musica.
Solo che il gol del due a zero, che chiuderebbe definitivamente i conti, non arriva.
Intanto c’è una punizione per i tedeschi.
Più o meno dalla posizione in cui aveva fatto gol Sinisa.
Tira Augenthaler, ma il suo tiro non assomiglia nemmeno a quello scoccato da Mihajlovic nel primo tempo. E’ centrale e neppure tanto potente.
Stojanovic si tuffa sulla palla. Ce l’ha praticamente in mano … poi la palla esce da sotto le sue gambe e rotola in rete.
Ora abbiamo tutti paura. Un altro gol dei tedeschi rimetterebbe in parità le sorti di un incontro che dovrebbe essere già chiuso da tempo.
Il Bayern sente l’odore del sangue.
Buttano una palla innocua in mezzo all’area dalla trequarti.
Riusciamo a fare un macello mettendo la palla proprio tra i piedi del terzino Bender, forse il più scarso di tutti i tedeschi. Il suo diagonale non ci lascia scampo.
Adesso il sapore della beffa, della maledizione di questa Coppa, ce l’abbiamo in bocca.
E’ aspro e impossibile da digerire ancora.
Quando, a dieci minuti dalla fine, vediamo una splendida girata di Binic finire fuori per un soffio ne siamo ormai già tutti convinti. Andrà male anche stavolta, come tutte le altre.
Subito dopo, quando Wohlfart si presenta da solo davanti a Stojanovic, capiamo che è veramente finita. Il suo tocco “sotto” scavalca il nostro portiere e la palla si avvia verso la porta ormai sguarnita. Ok, anche stavolta è andata. La palla tocca terra e, invece di finire in rete, va a sbattere contro il palo. Effenberg è lì, deve solo spingerla dentro ma stava per festeggiare il gol del compagno e rimane completamente spiazzato dal fatto che la palla invece di andare in fondo al sacco stia tornando verso di lui.
Chissà, forse gli dei del calcio non ci hanno ancora abbandonato del tutto.
Riprendiamo fiato. L’urlo del nostro stadio, il Rajko Mitic, è ora assordante.
Forza ragazzi è ancora lì, a portata di mano.
Stiamo già pensando ai supplementari. Tutti sanno della forza fisica e della resistenza dei tedeschi, ma il nostro Mister Ljupko Petrovic è un grande preparatore. Poi ci siamo noi “delije”, gli “eroi” a spingere i nostri di “eroi”.
Mentre mi sto perdendo in questi ragionamenti, vedo Jugovic che parte, palla al piede, dalla sua metà campo. Sembra un indemoniato. Sembra che sia il decimo minuto di gioco, non il novantesimo.
Salta tre avversari, fa un triangolo con Pancev e si lancia verso l’area di rigore. L’ultimo avversario, Reuter, riesce a fermarlo in spaccata.
Il rimpallo fa arrivare la palla e Prosinecki che prova a sfondare sul settore sinistro.
I tedeschi però sono ormai rientrati in blocco e il nostro biondo centrocampista può solo scaricare la palla sull’accorrente Mihajlovic. Il suo cross di sinistro di prima intenzione è velenoso e sta arrivando in mezzo all’area dove è in agguato il nostro “cobra” Darko Pancev.
Augenthaler, fino ad allora un’autentica roccia nel cuore della difesa dei bavaresi, si allunga in spaccata per impedire che la palla arrivi a Pancev.
Si alza una traiettoria strana, alta e lenta che sta andando verso il centro della porta tedesca. Il portiere del Bayern potrebbe bloccarla, alzarla sopra la traversa o attendere che gli cada innocua in grembo.
Decide, per nostra fortuna, di fare un’altra cosa ancora.
Dà un gentile schiaffetto alla palla spingendola in fondo alla propria porta.
E’ il gol più assurdo, folle e rocambolesco che abbia visto in vita mia.
Ma è il gol che ci manda in finale.
Andremo dall’altra parte dell’Adriatico, a Bari, a cercare di prenderci quello che stiamo rincorrendo da una vita.
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Il resto, come si usa dire, è STORIA.
La Stella Rossa batte ai rigori l’Olympique Marsiglia in una delle finali più brutte della storia del trofeo.
Ma scrive la storia.
La storia di una società gloriosa che in quella serata di Bari metterà finalmente il suo nome nell’albo d’oro della manifestazione calcistica per club più importante d’Europa.
Per Sinisa Mihailovic, e per la Stella Rossa, pareva l’inizio di un ciclo anche se riuscire a trattenere le sue ormai acclamate “stelle” sarebbe stata impresa non facile.
Non ci fu tempo per vedere cosa sarebbe successo.
Pochi mesi dopo la Jugoslavia si spezzò, vittima di una delle guerre più atroci di tutto il ‘900.
La Stella Rossa, quella meravigliosa squadra di calcio, si sfaldò letteralmente nell’estate del 1992.
I suoi calciatori migliori furono tutti costretti a lasciare il Paese per poter svolgere la propria professione.
Qualcuno arrivò qui in Italia (Sinisa firmò per la Roma) qualcuno andò in Spagna, qualcuno in Germania e qualcun altro in Turchia.
Una guerra che vide vecchi rancori covati per decenni sotto la cenere esplodere in maniera inaspettata e tragica.
Sinisa Mihajlovic è, per certi aspetti, l’esempio più lampante e significativo per far capire cosa sia stata questa guerra.
Nato a Vukovar, sul confine tra Serbia e Croazia, cresciuto in una famiglia modesta, con il padre Bogdan, serbo, di professione camionista e la madre, Viktorija, croata, operaia in una fabbrica di scarpe, vide la sua casa distrutta dalle forze croate nella “battaglia di Vukovar” (forze croate tra le quali militava il suo migliore amico d’infanzia) che scatenò un assedio durato quasi tre mesi da parte dell’Armata Popolare Jugoslava, appoggiata da forze paramilitari serbe.
Sopportò le minacce di uno zio croato che prometteva di far uccidere “come un maiale” il padre di Sinisa, serbo.
Lo stesso zio che, catturato dalle “Guardie volontarie serbe”, si salvò solamente perché nelle sue tasche trovarono il nome e il numero di telefono di Sinisa Mihajlovic, che intervenne direttamente salvando la vita allo zio materno.
Ecco, pensando a tutto questo, forse, sarà un po’ più facile evitare di dare giudizi sommari sull’uomo Mihajlovic.
Perché Sinisa MIhajlovic non ha vissuto una vita NORMALE.
La guerra, soprattutto se vissuta così da vicino, lascia un segno.
E se non l’hai vissuta è semplicemente impossibile capire.
Chiunque conosca Sinisa Mihajlovic dice la stessa cosa: “Sinisa parla con il cuore”.
Sempre.
Per sua stessa ammissione poche volte si dà il tempo di aspettare, di pensare, di prendersi tempo e di razionalizzare.
Ma parlare “con il cuore” vuol dire essenzialmente una cosa: dire la verità.
Certo, non quella assoluta.
La propria, che può piacere o non piacere. Ma chi, come Sinisa, dice SEMPRE la verità deve essere apprezzato, anche quando queste verità non ci piacciono, ci appaiono scomode o fuori luogo.
Sinisa è quello del necrologio alla “Tigre Arkan”, è quello dello sputo ad Adrian Mutu o delle offese razziste a Patrick Vieira.
Ma Sinisa Mihajlovic è anche quello capace di commuoversi quando si parla del suo “secondo padre” Vujadin Boskov o quello che, a detta praticamente di tutti coloro che lo hanno conosciuto, “sa dare un valore sacro all’amicizia” aggiungendo che “se diventi amico di Sinisa sai che lui per te ci sarà sempre”.
Ecco, proviamo a pensare a questo quando parliamo “di” o pensiamo “a” Sinisa Mihajlovic.
Bologna è una grande, meravigliosa ed accogliente città. Chi sta scrivendo questo pezzo ha una figlia che ci frequenta l’Università e alla quale s’illuminano gli occhi ogni volta che parla di Bologna.
A Bologna, indipendentemente dall’orientamento politico o culturale, hanno capito chi è Sinisa Mihajlovic e Bologna, tutta Bologna, gli sarà sempre accanto, soprattutto adesso in questa ennesima battaglia della sua vita da guerriero, fuori e dentro un campo di calcio.
Buon compleanno Sinisa, uomo vero.
Scritto da Remo Gandolfi
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