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Riflettere su gli errori: la viltà degli insulti a Sinisa
Negli ultimi giorni, come ormai tristemente noto, sono apparsi sui social insulti rivolti a Sinisa Mihajlovic legati alla malattia con cui combatte da più tre anni. Avvenimenti di questo tipo portano con sé molteplici riflessioni afferenti tanto al campo etico, quanto a quello tecnologico.
Una delle prime, e più facili, critiche mosse è sempre rivolta al mezzo attraverso cui il messaggio di odio viene veicolato e la sua conseguente demonizzazione. Ma siamo sicuri che esso abbia così tanta rilevanza? Umberto Eco affermò che «i social media danno il diritto di parola a legioni di imbecilli», ma questa sua citazione viene spesso utilizzata a sproposito e acriticamente: bisogna, infatti, considerare come egli fu un grande sostenitore delle tecnologie, in opposizione a quelli che definì «apocalittici», e successivamente integrarla con il proseguo della riflessione appena riportata, in cui sottolinea come i detti «imbecilli» sono sempre esistiti, solo che parlando in luoghi con limitata risonanza erano meno pericolosi. Ma siamo sicuri che gli odiatori da bar fossero effettivamente meno condizionanti? Rimanendo in ambito calcistico si possono citare i problemi legati agli striscioni, manifestazioni fisiche e non legate alla smaterializzazione digitale: nel 2007, prima della diffusione massiva dei social, in Italia entrò in vigore la legge 41/07 volta a vietare la rappresentazione in essi di simboli politici, per limitarne l’utilizzo a scopi discriminatori, eppure negli ultimi anni la situazione non sembra essere migliorata, si pensi agli adesivi antisemiti rappresentati Anna Frank nel 2017 o all’invito a bombardare Napoli invece che l’Ucraina operato da alcuni ultras pochi mesi fa. Le persone che, materialmente, hanno prodotto questi vessilli di odio e violenza potrebbero essere le stesse che, sui social, hanno insultato Mihajlovic. Accusare in primis il mezzo per i suoi supposti rischi è, quindi, sbagliato e rischia di sviare l’attenzione dal vero problema: le persone e il rispetto. Il problema è l’educazione civile all’utilizzo di un qualsiasi mezzo, non il mezzo stesso, altrimenti si rischierebbe di cadere nella condanna aprioristica a una tecnologia che certamente non è ingenerata e non autoproduce i suoi contenuti. Se lo facessimo, saremmo noi stessi parte del problema, perché operando un transfer andremmo a togliere parte delle colpe dalle spalle dei colpevoli reali, senza proporre possibili soluzioni.
Ovviamente, poi c’è il problema etico, ma a riguardo c’è poco da discutere. Insultare una persona per una sua condizione di salute è un’azione di rara bassezza e che nulla ha a che fare con le critiche che si possono, lecitamente, muovere al lavoro svolto da Mihajlovic sul campo. Ma a essere scorretto, per non dire immorale, è anche il pietismo che spesso serpeggia tra le parole di chi difende l’uomo Mihajlovic: lui stesso, infatti, ha fin da subito reso nota la sua condizione per non dare adito a voci e chiacchiericci, sottolineando come la sua persona e la sua malattia non coincidano in alcun modo. Non va difeso per il modo in cui affronta la malattia, ma va difeso per il valore che sta dimostrando come individuo. Mihajlovic, inutile nasconderlo, nel corso della sua vita è stato un personaggio controverso: tutti ricordiamo gli scontri con Vieira e i problemi con Ljajic, mentre meno note sono le controversie legate alla sua amicizia con Raznatovic, accusato di crimini contro l’umanità, e le simpatie dimostrate per Milosevic. Per onestà intellettuale ci tengo a sottolineare la mia profonda distanza da questi fatti, ma va riconosciuto come negli anni Mihajlovic sia stato in grado di assumersi la responsabilità per i suoi comportamenti, tentare gesti di redenzione e spiegare alcune delle sue affermazioni dando una diversa sfumatura di senso. La persona che appare oggi è profondamente diversa, non è più il ragazzo che per irruenza e immaturità ha compiuto sbagli, anche grossi, ma è una figura che cerca di ridurre le tensioni e di essere un esempio per i giocatori, spesso molto giovani, che allena, condannando apertamente scorrettezze e gesti di razzismo. È significativo a tal proposito citare la conferenza prima del match di San Siro, quando interrogato su Moro ha affermato di conoscerlo e che, in quanto croato, è per lui come un fratello, perché chi nasce in quelle zone sono tutti fratelli. Questo pensiero di Mihajlovic è passato, colpevolmente, in sordina: in un momento in cui tra Serbia e Croazia, ma in generale nei territori dell’ex Jugoslavia, la tensione è di nuovo molto alta, un messaggio di vicinanza e unione avrebbe dovuto avere maggiore risonanza, ancor più se detto con sincerità da chi negli anni passati, volente o nolente, ha rappresentato un’ideologia opposta. Chi ha insultato Mihajlovic utilizzando la sua malattia, va condannato per la viltà del gesto, lui invece va difeso per l’uomo che è o che sta cercando di essere, così che il suo cambiamento possa essere d’esempio anche a chi ora compie bassezze nei suoi confronti.
Infine, un tema che quasi mai viene affrontato e che ora è emerso grazie alla reazione della figlia Viktorija è quello delle famiglia. Mihajlovic, infatti, è un personaggio pubblico, abituato da decenni a essere esposto sia ai privilegi che agli oneri che questo comporta, ma non lo sono le persone con cui condivide la sua vita privata. Quando vengono mossi certi insulti, specie se riguardanti condizioni delicate come una malattia, le persone coinvolte sono molte di più rispetto a quello che è l’obiettivo primario. Ancora una volta questa è la dimostrazione di come le parole utilizzate hanno sempre un significato e delle conseguenze che vanno ben oltre a quello che superficialmente si pensa. Parlando di arte si dice che le opere hanno tre vite: una nella mente di chi le crea, una rappresentata dalla loro esistenza materica e la terza nella percezione dei fruitori. Questo vale anche per le parole e bisognerebbe sempre ricordarlo, anche quando vorremmo fare del bene, ma con le nostre scelte terminologico-contenutistiche dimentichiamo di mostrare solidarietà a chi subisce, con grande intensità, le vicende di cui trattiamo.
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