Bologna FC
Senza Vincoli Contrattuali: Mikkel Damsgaard
Dall’alba dei tempi l’uomo tenta di regolare il caos, di costringere l’imponderabile all’interno di un regime controllato da norme che lo rendano prevedibile e manipolabile.
L’opera umana è considerata perfettamente eseguita quando non lascia nulla al caso. Ogni effetto deve provenire da una causa appositamente innescata, e generare a sua volta la conseguenza prevista. Come un orologio: ogni sessanta secondi scatta un minuto, che a sua volta si ripete fino a generare un’ora. Nessuno può essere sorpreso dal lavoro di un cronometro, ed è per questo che funziona talmente bene da divenire il proverbiale richiamo alla perfezione.
Ma se da un lato la regolamentazione schematica sgombra l’orizzonte da ogni possibile inconveniente, creando una serra ad atmosfera controllata particolarmente indicata per la produttività in serie — l’essenza del fordismo -, è altrettanto vero che avvelena alla base ogni germoglio di genialità. L’estro è per propria essenza sopra le righe. Il genio per manifestarsi necessita di uscire dal convenzionale e compie ciò che nessuno ha mai immaginato, figurarsi poterlo regolare. Da queste gesta straordinarie nascono lo stupore e la meraviglia, sentimenti impossibili da razionalizzare, che rendono favolosa l’esperienza umana. Ecco l’essenza del fascino emanato dal calcio: per quanto si provi a dominarlo con statistiche, previsioni, schemi e calcoli, il gioco si offrirà sempre come terreno fertile per la proliferazione del talento.
Proprio il talento, che per sua stessa natura non risponde alla schematicità imposta dalla matematica, è sintetizzato in un numero. Il dieci è per antonomasia il simbolo del genio legato al pallone. Uno stile racchiuso in una maglietta, talmente radicato da sopravvivere alla scomparsa della numerazione fissa. Oggi non è più necessario avere l’uno e lo zero cuciti (o sarebbe meglio dire stampati) sulla schiena per essere numeri dieci: il significato si è liberato del proprio significante. Il talento si basta da solo, non serve annunciarlo con un paio di cifre. Il genio che sfugge agli schemi si è emancipato dal codice binario: quindi largo ai Baggio con la diciotto o ai Messi con la trenta, che non se ne curano e giocano da dieci.
Il dieci è per l’appunto quello che manca al Bologna. Non come prestanome per la distinta (Nicola Sansone tiene in caldo la maglia più prestigiosa), ma come archetipo di giocatore geniale, in grado di legare il centrocampo all’attacco. Il cambio di modulo adottato da Sinisa Mihajlovic dopo una manciata di partite ha sottolineato questa lacuna della rosa. Il 4-2-3-1 ruota tutto attorno al trequartista, a cui è delegato l’onere della creatività; ancora di più nel momento in cui nessuno dei due mediani sia iniziato alla costruzione. Nello scorso campionato ad occupare quella zolla è stato Roberto Soriano, che ha vissuto una delle migliori stagioni della carriera, ma svolgendo un compito diverso. Il capitano non ha l’estro del rifinitore, ma ama galleggiare nella terra di nessuno per far perdere le proprie tracce e assaltare di soppiatto l’area di rigore, sfruttando i movimenti del centravanti come diversivo. Soriano parte dalla trequarti per andare a chiudere l’azione, non per crearla. La rosa rossoblù vanta diversi interpreti abili nell’attaccare l’area di rigore, anche con trame differenti, ma manca di qualcuno in grado di rifornirli. Tante bocche da fuoco sono inutili se dietro non c’è un apparato logistico in grado di far arrivare le munizioni al fronte. Quindi via una punta e dentro un difensore.
Domenica pomeriggio i rossoblù incroceranno la Sampdoria sul prato del Luigi Ferraris, in cerca di riscatto dopo il netto 3-0 di Torino. Roberto D’Aversa si presenta alla partita con cui si gioca la panchina con mezzo centrocampo che manca all’appello: Ronldo Vieira e Valerio Verre fermi ai box per infortunio, Adrien Silva che deve scontare la squalifica rimediata con il Toro e Mohamed Ihattaren che si è ritirato in esilio in Olanda, causato dal profondo dolore per la perdita del padre. L’infermeria blucerchiata offre ospitalità da quasi un mese anche ad uno dei più promettenti talenti del calcio continentale, che è stato protagonista all’ultimo Europeo con la maglia della Danimarca. Mikkel Krogh Damsgaard, 21 anni compiuti a luglio, di ruolo trequartista è l’uomo che sta mancando di più a D’Aversa nelle ultime cinque partite, saltate per un problema al ginocchio destro, e che come caratteristiche manca tantissimo anche al Bologna di Mihajlovic.
Damsgaard sarebbe il profilo perfetto per colmare la carenza di qualità in fase di rifinitura offensiva. Giocatore modernissimo, che unisce la corsa dell’interno, il dribbling dell’ala e la creatività del dieci, mentre sulla schiena porta il 38. Modernità appunto.
Il danese è un battitore libero, capace di andare oltre i sistemi di gioco e di trovarsi la propria posizione in campo. Scorrazza naturalmente fra il centrocampo e l’attacco svariando per tutta la longitudine del prato, alla ricerca della zona migliore da cui guidare l’arrembaggio all’area avversaria.
Troverebbe quindi confortevoli entrambi gli abiti che Sinisa sta cucendo su misura alla propria squadra. Che sia il 4-2-3-1 degli inizi o il 3-4-1-2 d’emergenza poco cambierebbe; andrebbe ad occupare la stessa posizione, facendo da collante fra i due centrocampisti e le punte, e svolgerebbe lo stesso compito: l’apriscatole. Utensile quasi totalmente desueto, sorpassato nel calcio come in cucina da una soluzione più elegante, ma che in determinate circostanze risulta di una praticità imbattibile. L’alternativa moderna all’apriscatole tattico è il palleggio. Ordire una complicata trama di gioco con cui incantare gli avversari, per poi trafiggerli non appena mostrino il fianco. È sì la strada più spettacolare, ma nasconde insidie e conti salati. Necessita di una rosa appositamente concepita, ben attrezzata di interpreti dalle spiccate qualità tecniche — soprattutto a metà campo — ed educati alla dottrina. Regala sicuramente profonde soddisfazioni e non è per forza una esclusiva dei ricchi — anche se nel calcio come nella vita il denaro, pur non essendo tutto, aiuta molto — ma certamente non è una soluzione che possa essere improvvisata. Il gioco corale ha bisogno per crescere di lavoro, tempo e cura. L’apriscatole invece deve soltanto essere acquistato ed è immediatamente efficace.
Il pezzo migliore del repertorio del giovane folletto danese è indubbiamente il dribbling negli spazi angusti. Trova piacere nel ricevere il pallone sui piedi e nell’offrirsi al pressing avversario; quasi lo invita, come un torero. Quando sembra ormai spacciato scivola lateralmente per evitare l’impatto, con un movimento secco ma allo stesso tempo armonioso. E la palla, neanche a dirlo, viene via con lui. Saltare la prima pressione, e magari anche il raddoppio, ti spalanca il campo. Immediatamente, quella che fino ad un istante prima appariva una solida fortezza, ora si rivela un castello di carte.
Il Bologna può contare su di una schiera di giocatori dalle pregiate qualità tecniche, ma uno come Damsgaard manca. I vari Barrow, Orsolini, Skov Olsen e Soriano vanno a nozze quando c’è da attaccare gli spazi, Damsgaard invece li crea. Sarebbe il coronamento ideale della rosa rossoblù, a prescindere dal sistema di gioco, perché si completerebbe alla perfezione per caratteristiche con i compagni.
Chiaramente, nonostante il talento cristallino, ha anche diversi aspetti da migliorare. Il primo fondamentale da curare è la finalizzazione. Il fantasista danese fattura una frazione drasticamente ridotta della mole di gioco che produce. Cerca troppo poco il tiro.
Preferisce di gran lunga tentare un dribbling in più rispetto alla conclusione. Coltiva una singolare forma di egoismo a favore degli altri: si libera malvolentieri del pallone, si crogiola nell’uno contro uno anche quando non sarebbe necessario, ma sul più bello non è individualista fino in fondo e preferisce cedere la gloria della stoccata. Incrementare il bottino di reti personali è il prossimo passo fondamentale sulla tortuosa strada che porta ad affermarsi come campione. In questo il Bologna potrebbe aiutarlo a crescere. Fra i componenti della rosa figurano cecchini del calibro di Barrow ed Arnautovic, che possono vantare il tiro come fiore all’occhiello del repertorio.
In cambio Damsgaard può offrire una merce decisamente rara e cara, un violino a cui l’orecchio degli attaccanti è particolarmente sensibile: l’incremento significativo di situazioni favorevoli in zona offensiva. L’inserimento del giovane trequartista potrebbe sortire l’effetto della terapia d’urto sulla fase di costruzione rossoblù. Al momento la squadra è sprovvista di un regista; la società ha tentato di accontentare Sinisa con l’ingaggio di Viola a parametro zero, ma deve ancora entrare nelle gerarchie.
Damsgaard non può chiaramente essere considerato un geometra — delle due più un graffitaro del pallone — ma permetterebbe di aggirare il problema. Crea infatti con la giocata individuale quello che il regista costruisce con l’organizzazione: una via diretta per la porta. Appare evidente come le due strade non possano essere equiparate. La formazione che si affida agli strappi dell’acceleratore di gioco per scompigliare gli equilibri è destinata ad avere pulsazioni irregolari, a vivere di sfuriate offensive, mentre il palleggio consente di imporre il proprio ritmo e di riposarsi con la palla.
Affidarsi al genio d’altronde obbliga necessariamente a scendere a qualche compromesso. Non esiste artista senza capricci, il talento puro si paga per forza in qualcos’altro. Ma l’apriscatole non ha la pretesa di essere la soluzione perfetta, soltanto in certe occasioni è semplicemente la migliore. E capita a volte che non se ne possa proprio fare a meno.
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