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Tutto calcio che Cola #41: La solitudine dei numeri uno – 13 gen

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Se il prestigioso “Pallone d’Oro” è stato assegnato, dalla sua creazione a metà degli anni ’50, quasi sessanta volte e di queste solo una volta è toccato ad un portiere, forse una logica dietro che giustifichi queste scelte c’è.
È del resto toccato raramente anche ad un difensore, a riprova di quello che sostiene il grande scrittore di calcio Jonathan Wilson: se la sintesi del calcio è nella gioia, e questa gioia sta nel gol, difensori e soprattutto portieri hanno l’ingrato compito di essere coloro i quali sono destinati a tentare di strozzare questa gioia, questa emozione. Dei guastafeste. Ragionamento che fila, e con cui ho sempre giustificato l’assegnazione del Pallone d’Oro a quei giocatori capaci in campo di creare magie, spaccando e decidendo le partite: non che gli altri non giochino insomma, ma per quanto si possa osservare il football obbiettivamente si rimarrà sempre più stregati da una roulette di Zidane che da una diagonale perfettamente eseguita.
Eppure il Pallone d’Oro non assegnato a Manuel Neuer, straordinario portiere paratutto della Germania Campione del Mondo, sa tanto di occasione persa: perché forse per la prima volta dal 2006, anno in cui uno straordinario Buffon spiccò nell’Italia, si è avuta la nettissima sensazione che le parate di un portiere potessero valere quanto – e forse più – di un gol. Per carità, come e più di quanto accadde a Buffon, la concorrenza non era poca roba: allora trionfò un Fabio Cannavaro che era praticamente ovunque, stavolta un Cristiano Ronaldo che oltre ad essere il prototipo del calciatore perfetto (gioca dappertutto, sa fare tutto, segna come un bomber e crea come un fantasista) ha conquistato la Champions League ed è su livelli assoluti da anni e anni.


È però comprensibile che in tanti (me compreso) sperassero in una vittoria di Neuer, il quale si è trovato a rappresentare la squadra campione del mondo, un movimento calcistico costantemente in crescita e una categoria, quella dei portieri, che è da sempre bistrattata. Si comincia nei giardini da piccoli, quando chi finisce in porta è puntualmente o il più scarso oppure chi, per chissà quale divina ispirazione, vuole addirittura volontariamente farlo spontaneamente. E diciamocelo, c’è qualcosa di magico e di maledetto in questo ruolo: vesti diverso dai compagni, usi le mani. La storia è piena di portieri straordinari, dalle storie straordinarie: io stesso mi sono divertito a raccontare qui su 1000cuorirossoblù quelle di Bert Trautmann, una volta nazista e poi eroe d’Inghilterra, e di John Thomson, giovane martire dei Celtic Glasgow. Io stesso da piccolo giocavo in porta, nel tentativo di distinguermi dagli altri, dandomi una dimensione diversa dagli altri bambini che correvano e che avevano più furore agonistico di me.
Quale che sia il motivo, chiunque abbia giocato in porta sa quanto questo ruolo sia diverso, per persone diverse. E tutti questi (compreso l’amico Davide che ha raccontato bene la serata di  ieri QUI) presumo vedessero in ieri sera l’occasione per un riscatto dell’intera categoria: del resto Manuel Neuer non solo para, ma dona spettacolo con le sue uscite avventurose nelle quali mantiene una freddezza e una glacialità tutta teutonica. Sembra sempre rischiare, ma a farci caso non rischia quasi mai, ogni mossa la perfetta conseguenza di un qualcosa già immaginato, previsto, calcolato: così come Cristiano Ronaldo – più di Messi, grazie ad una struttura fisica di prim’ordine – rappresenta il prototipo del calciatore perfetto, Neuer rappresenta il portiere perfetto, bravo con i piedi, forte tra i pali, carismatico e sicuro di se e con ancora molti anni davanti. Anni in cui c’è però da temere che un’occasione come quella di ieri sera difficilmente si ripresenterà.
Si consoli, Neuer: è la solitudine dei numeri uno. Qualcosa che il grande Fabien Barthez, guardiano dei pali della Francia campione del mondo nel 1998, riassunse bene così: “La vita è fatta di piccole solitudini. Quella del portiere di più.”

Sempre parlando di portieri, esattamente una settimana fa è scomparso all’età di 84 anni Uber Gradella. Storico portiere della Lazio negli anni ’40, si era affermato nel Mantova ma si era innamorato della maglia biancoceleste al punto che vestirla per lui era una missione. Quando si ruppe un ginocchio dopo essere stato travolto da una mischia in area, restò fuori dai campi per un anno, e quando tornò trovò la porta occupata dal grande Lucidio Sentimenti – anche lui scomparso poco più di un mese fa: pur di non vestire altre maglie, si ritirò neanche trentenne. La Lazio lo aveva aiutato ad aprire un negozio di abbigliamento sportivo, e Gradella continuò a servire la società fornendogli le divise di gioco per un ventennio. Una bellissima storia d’amore di un personaggio passato in sordina nel mondo del calcio ma che ho voluto ricordare a chi non lo conoscesse e che ben può rappresentare le favole che questo sport sa raccontare.

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