Seguici su

Calcio

A tu per tu con Carlo Nicolini: “Insidie e paura per lasciare Kiev, al sicuro dopo 29 ore di viaggio”

Pubblicato

il


Tutto il Mondo è in pensiero, la mente di ognuno di noi è rivolta verso l’Ucraina, un Paese che sta affrontando e subendo una guerra senza senso. Tanti gli italiani che sono ancora lì, tanti quelli che sono riusciti a lasciare il Paese. Tra questi, anche Carlo Nicolini, vice direttore dello Shakhtar Donetsk di De Zerbi: tutto lo staff della squadra ucraina, infatti, si trovava a Kiev all’inizio dei bombardamenti. Dai primi avvisi di guerra al viaggio-odissea per lasciare l’Ucraina.

Come sta ora?

“Onestamente, pensavo sarei stato molto meglio. Pensavo che il tempo e il fatto di essere in Italia mi avrebbero fatto stare meglio. Non dal punto di vista morale, perché la tristezza per i ragazzi e per gli amici resta, ma è da un punto di vista fisico e mentale. Non si riesce a staccare: pensiamo a tutti quelli che sono rimasti lì. La guerra non è un qualcosa che si può mettere da parte”.

Torniamo a quando eravate a Kiev, ricorda il momento esatto in cui avete sentito per la prima volta i bombardamenti?

“Li abbiamo sentiti per la prima volta la mattina del 24; ci eravamo riuniti il giorno prima, avendo capito che la situazione stava degenerando. Ci siamo trovati per decidere le mosse successive; poi, come da programma, il giovedì ci sarebbe stato l’allenamento, ma ci siamo visti per sospendere il tutto. Tra mercoledì notte e giovedì mattina abbiamo sentito un forte boato, tant’è che staff e brasiliani hanno cominciato a riunirsi in hotel. Noi abbiamo solo sentito, qualcuno ha anche visto il cielo rosso”.

Quanto è stato complicato realizzare ciò che stava accadendo?

“Sono stati momenti caotici, iniziavano ad arrivare mille notizie, mille ipotesi, telefonate perché abbiamo iniziato a chiamare club, federazione, ambasciata, console. Sono stati momenti difficili, non di panico perché siamo stati bravi a gestire la situazione con responsabilità e intelligenza, nonostante nessuno di noi fosse addestrato per momenti del genere. Io avevo vissuto qualcosa del genere nel 2014, ma vivere tutto questo non ti dà l’esperienza per riaffrontare una tale situazione. Ragionandoci dopo, siamo stati veramente bravi: calmi, razionali, abbiamo cercato di analizzare informazioni che arrivavano e ci siamo mossi di conseguenza”. 

Dove eravate inizialmente? 

“Siamo sempre stati nello stesso hotel di Kiev, che è quello del nostro presidente: è sulla strada per poi andare al centro di allenamento. E’ il nostro punto di riferimento, anche perché il club è lì, gli uffici societari sono a Kiev, ormai siamo lì dal 2014. Qualcuno era già lì, qualcuno è arrivato appena iniziati i bombardamenti. Da lì non ci siamo più mossi”.

Eravate tutti d’accordo nel voler rimanere? 

Sapendo che sarebbero arrivati i calciatori brasiliani con i figli, abbiamo subito deciso di rimanere lì, volevamo prima aiutarli e mettere in salvo loro, magari andando via tutti insieme. Erano impauriti, non potevamo lasciarli soli. Non volevamo abbandonarli. Ognuno nella sua testa faceva riflessioni, ma eravamo tutti d’accordo anche perché non abbiamo obbligato nessuno: da uomini di sport e da uomini responsabili, abbiamo deciso di rimanere, nonostante avessimo avuto occasioni di andare via prima. Tutti erano in contatto con le diverse ambasciate, hanno dato istruzioni diverse e questo lasciava un po’ tutti perplessi. Chi diceva di restare, chi di partire, chi di aspettare. Siamo rimasti uniti, senza nessuna forzatura”.

Quali sono stati i passi con l’ambasciata? Cosa vi dissero inizialmente?

“Eravamo in contatto ogni giorno con il console, che ci informava della situazione e cercava di tranquillizzarci. Era anche con le mani abbastanza legate, anche perché a Kiev c’erano e ci sono molto italiani, quindi dovevano pensare anche a loro. Ci proposero di andare in ambasciata ma anche lì la situazione era complicata. Continuavano a confermarci che ci trovavamo in un posto abbastanza sicuro, eravamo automuniti con un club alle spalle, non ci siamo mossi per andare all’ambasciata. Abbiamo chiamato il club per capire come muoverci; successivamente, Darijo Srna e Roberto De Zerbi hanno contattato Ceferin che poi ha fatto pressione sulla federazione dell’Ucraina. A Ceferin si è accodato anche Gravina, quindi la situazione era monitorata; Uefa, Figc e federazione ucraina hanno organizzato parte del nostro viaggio, il resto lo ha fatto il club”.

Finalmente riuscite a scappare. Come vi avevano organizzato il viaggio? Com’è stato il viaggio in treno?

“Il pericolo principale, essendoci il coprifuoco, era che noi non potevamo muoverci dall’hotel alla stazione. Avevamo chiesto un auto, ma non ce n’erano e nessuno si voleva prendere la responsabilità di scortarci. Il pericolo è stato questo. Tramite il club, abbiamo poi trovato delle milizie che potevano scortarci. Abbiamo dunque seguito queste milizie, con le nostre macchine. Siamo arrivati alla stazione e, arrivati lì, i militari ucraini hanno controllato chi fossimo, ci hanno lasciato passare. In stazione c’era questo treno, noi abbiamo trovato dei posti tramite Ceferin, club e federazione: siamo arrivati a Leopoli. Durante il viaggio non abbiamo visto nulla di particolare, solo nuvole di fumo, bombardamenti lontani. E’ stato un viaggio di tensione perché è durato cinque o sei ore, e ogni tanto il macchinista diceva di scendere o salire, anche perché diversi punti erano interrotti. Non abbiamo visto particolari scene, il viaggio è stato abbastanza tranquillo nonostante la tensione: poteva succedere qualsiasi cosa, da un momento all’altro. Arrivati a Leopoli, il vicepresidente della federazione ucraina, ci ha prelevato con la scorte e ci ha messo a disposizione un minibus: da lì, siamo arrivati a Užhorod, l’ultima città al confine con l’Ungheria. Abbiamo guidato nella notte, in mezzo a una tormenta di neve: sei ore di viaggio, siamo arrivati verso le quattro e mezza di mattina verso la frontiera. Alle sei siamo arrivati proprio al confine sulla frontiera, ci abbiamo messo tre ore per passarla, dopo i vari controlli. Verso le nove e mezza siamo arrivati in Ungheria, dove il pullman del Ferencváros ci ha portato fino a Budapest. Da lì, abbiamo preso un charter e siamo partiti, direzione Bergamo. Tutto il viaggio è durato circa 29 ore. Pericoli particolari non ne abbiamo vissuti, ma c’era comunque tensione: stavamo attraversando un Paese in guerra”.

Al rientro in Italia che emozioni e sensazioni avete provato?

“In quel video che abbiamo fatto e pubblicato, De Zerbi parlava con il cuore: eravamo felici, perché avremmo a breve riabbracciato le nostre famiglie e perché non eravamo più in pericolo di vita. Allo stesso tempo infelici e distrutti per chi ci siamo lasciati dietro, e non perché li abbiamo abbandonati ma perché non potevamo aiutarli in maniera diversa. Chi è ancora lì non può uscire dall’Ucraina”.

I vostri calciatori attualmente dove si trovano?

“Tutti gli stranieri sono a casa. I brasiliani hanno fatto un giro diverso dal nostro, sono passati attraverso la frontiera moldava e rumena. Una volta arrivati a Bucarest, sono volati in Francia per poi raggiungere il Brasile. Non erano solo i calciatori, ma insieme alle loro famiglie erano circa in 39. Gli ucraini, in tre, sono a Bucarest: sono riusciti ad arrivare lì perché hanno tre figli. In Ucraina c’è una legge: chi ha tre figli può uscire dall’Ucraina, mentre chi ha tra i 18 60 anni non può lasciare il Paese. Gli altri sono lì, sono nascosti nei bunker, stanno cercando di muoversi, ma sono ancora in territorio di guerra: è tremendo, li sento spesso per sapere come sta andando. Sono al sicuro, in maniera relativa”.

Non si può dimenticare, ma come si fa a razionalizzare un’esperienza del genere?

“Non lo so, vedremo. Non è un’esperienza che ha già vissuto, non è una partita che è finita in un modo. Mi auguro che finisca tutto presto, senza ulteriori vittime, perché se perdi affetti, cose materiali e lavoro, quello puoi anche metabolizzarlo. Se però perdi persone, lì diventa più complicato. Non so se si potrà mai dimenticare un’esperienza di questo genere, non so se potrò voltare pagina e dimenticare”.

 

Continua a leggere le notizie di 1000 Cuori Rossoblu e segui la nostra pagina Facebook

E tu cosa ne pensi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *