Calcio
Abdòn Porte, “il fantasma del Parque Central”
Nel calcio le bandiere non scompariranno mai. I soldi potranno sempre comprare chiunque, ma fino ad un certo punto, perché i calciatori sono esseri umani e possono amare una squadra, un club, al punto tale da non volersene mai separare: è il caso di Zanetti dell’Inter, Del Piero della Juventus, Giggs del Manchester United e di Matt Le Tissier, “Dio” di Southampton.
Ma se il fenomeno delle bandiere accade oggi, che i calciatori sono superstar professioniste superpagate, immaginate cosa poteva essere un tempo: la storia del calcio degli albori è piena di giocatori che hanno vissuto per la loro squadra. Qualcuno è anche morto per la sua squadra.
Questa è la storia di uno di questi.
Questa è la storia di Abdòn Porte, “il fantasma del Parque Central”.
Giunto sul finire del XIX° Secolo, come sempre portato dai pionieri inglesi che per lavoro visitavano un paese ai tempi in forte espansione economica, il calcio in Uruguay si diffuse immediatamente e in breve tempo divenne lo sport nazionale. La Nazionale uruguaiana fu, nelle prime decadi della storia del calcio, la squadra piu’ forte al mondo, vincendo fino al 1930 ben sei edizioni della Coppa America, due Olimpiadi e il primo Mondiale di Calcio della storia, vinto sconfiggendo in finale i cugini ed eterni rivali dell’Argentina.
Anche se il campionato locale rimase a lungo dilettantistico, i migliori giocatori del mondo erano uruguaiani ed esaltavano le folle con le loro magie, esprimendo un gioco che si era ben presto trasformato dal tipico “calcia e corri” inglese in un fraseggio elegante e ben articolato, con tanti colpi di prima e numerosi virtuosismi.
Abdòn Porte era un bambino quando il calcio cominciò a diffondersi nel suo paese: sulla sua data di nascita non esistono fonti certe, si dice però che nacque intorno alla seconda metà della decade del 1880. Affascinato da quel gioco portato dagli stranieri inglesi, si distinse subito tra i più bravi, e giunto a Montevideo diventò in breve tempo uno dei calciatori più rinomati in città.
Noto come “El Indio” per via dei suoi tratti somatici, Porte era un centromediano elegante ma di sostanza, come il ruolo (paragonabile al moderno regista arretrato, alla Pirlo per intenderci) esigeva: entrato nel Colòn Montevideo, divenne un punto fermo della squadra per poi trasferirsi, dopo un breve periodo al Libertad, nel Nacional.
La squadra, i cui giocatori sono noti come “Tricolores”, rappresentava lo spirito indipendente e nazionalista dei giovani urugaiani, che si ribellavano ai tanti stranieri protagonisti dei primi campionati di calcio locali. Abdòn Porte è il pilastro di quella squadra, l’anima, e la guida immediatamente al trionfo in campionato nel 1912 a cui segue una tripletta di vittorie (1915, 1916, 1917) che portano la squadra a diventare una delle grandi del calcio in Uruguay.
Abdòn Porte non era solamente un calciatore, ma amava il calcio in maniera viscerale: l’urlo della folla del Parque Central, i trionfi, lo spirito stesso del club erano un tutt’uno con questo regista, che in Nazionale prese parte alla spedizione che vinse la prima Coppa America pur non venendo mai schierato dal CT Ramòn Platero.
Il commissario tecnico dell’Uruguay cominciava infatti ad intravedere in Porte i primi segnali di un logico logorio fisico, in un’epoca in cui i calciatori non erano professionisti e quindi non si allenavano ne conducevano una vita necessariamente salubre: oramai intorno ai trent’anni, Abdòn sembrava in procinto di concludere la carriera, ma non riusciva a farsene una ragione.
Per lui, arrivato nel calcio in tarda età, quello sport e il Nacional erano tutto.
Se solo non si fosse innamorato così follemente del football, se non si fosse del tutto identificato con il Naconal e con il suo ruolo di condottiero, oggi Porte sarebbe semplicemente ricordato come uno dei primi grandi pionieri del calcio in Uruguay. Invece le cose andarono in maniera diversa, e nel 1918 Porte lasciò le dimensioni dell’uomo per entrare in quelle del mito.
La stagione susseguente alla deludente, per lui, spedizione con la Nazionale per la Coppa America, fu la stagione del declino per Porte: spesso lasciato in panchina a discapito di calciatori piu’ giovani, rapidi e solidi di lui, l’uomo perse fiducia in se stesso e cadde in depressione. E quando veniva schierato, forse anche più per rispetto che per vere e proprie scelte tecniche, le sue prestazioni non erano al livello a cui aveva abituato la folla e il comitato tecnico del club, che aveva deciso gradualmente di sostituirlo con il giovane e grintoso Alfredo Zibechi, appena arrivato dal Montevideo Wanderers e che già in Nazionale aveva preso il posto del povero Abdòn. Essere fuori dai titolari, a quel tempo, voleva dire essere fuori dalla squadra, visto che le gerarchie erano molto rigide e per chi usciva era quasi impossibile rientrare. Essere fuori dalla squadra per Porte voleva dire abbandonare il Nacional, unico grande amore.
Presto tifosi e compagni cominciarono a criticarlo, una cosa che accade in ogni squadra di calcio ma che sul morale già basso di Porte ebbe un effetto fatale.
La notte del 4 Marzo del 1918, dopo l’abituale festa in sede che veniva svolta dal Nacional dopo ogni gara di campionato, Porte decise di non dirigersi a casa: ai piu’ era parso sereno, e del resto quel giorno aveva giocato bene nella vittoria per 3 a 1 sul Charley Solferino.
Come detto, non si diresse a casa, almeno non quella che si intende per il luogo dove si abita. Andò invece al Parque Central, lo stadio del Nacional, quella che lui considerava la sua vera casa. Probabilmente rimirò a lungo le tribune, ricordando quante volte avevano cantato il suo nome, quante volte quel campo lo aveva visto Re, trionfatore, insieme ai suoi compagni.
“Nacional anche quando sarò polvere.
E anche in polvere sempre amante.
Non dimenticare mai un istante
quanto io ti abbia amato.
Addio per sempre.”
Nelle lettere Porte chiedeva di essere seppellito nel “Cementerio de la Teja” a fianco dei suoi idoli, e idoli anche del Nacional, i fratelli Bolivàr e Carlitos Cespedes, autentiche icone del club prima di Porte e morti di vaiolo nell’epidemia del 1905, e così fu. Essendovi incertezze sulla sua data di nascita, non si può sapere con esattezza quanti anni avesse quando lasciò questo mondo per sempre, ma fonti autorevoli come “El Pais”, oltre che il racconto di chi lo vide giocare e sosteneva che avesse perso smalto fisico, fanno pensare che avesse circa trent’anni.
Tutto il calcio urugaiano fu sconvolto nell’apprendere la notizia della morte di Porte, molti club mandarono fiori e ci fu grande commozione tra compagni e tifosi, che in qualche modo si sentirono responsabili della fine di un uomo che invece non riusciva a rassegnarsi allo scorrere del tempo. Il Nacional, sotto shock, perse un campionato che aveva in pugno, ma la stagione successiva tornò al trionfo, dedicandolo proprio a Abdòn.
Tutt’oggi, in ogni partita del Nacional Montevideo, nella curva a lui dedicata dello stadio Parque Central (uno dei pochi dell’epoca ancora utilizzati) i tifosi espongono uno striscione che incita i calciatori in campo a dare tutto quello che hanno “per il sangue di Abdòn”.
Così si conclude questa storia: la storia di un uomo che amava il Nacional con tutto se stesso, che avrebbe sempre voluto indossare la maglia dei Tricolores e che, quando capì che sarebbe stato rimosso da quel palcoscenico che per lui era tutto, preferì rimuoversi da solo.
Ma se il Nacional oggi, dopo un secolo, è ancora vivo, e se lo stadio Parque Central rimane ancora in piedi quando tutti gli stadi dell’epoca sono stati sostituiti, forse il merito è anche di Abdòn Porte, “El Indio”, il fantasma del Parque Central.
“Il Nacional era il suo ideale.
Lo amava come il credente la fede, come il patriota la bandiera”
(Numa Pesquera, dirigente del Nacional di allora)
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