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Christmas Tale – Di football e di zucchero filato

Di football e di zucchero filato – Una racconto natalizio della rubrica “Christmas Tale”

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“La colazione è pronta!” ruggisce una voce femminile, soffocata dalla moquette. L’intero paese di Liston è scosso, all’unisono, da quel gracchiare inquieto. “Allora, mi devi far arrabbiare anche a Natale? Muoviti, è tardissimo!”.  Thomas non è un ragazzo come gli altri, o meglio: è proprio la consapevolezza di non avere nulla di unico, di speciale a renderlo diverso. Un altro giorno, un’altra sveglia, in fondo poco cambia, nulla si evolve. “Arrivo, arrivo…”, la moquette è soffice ed accogliente per i piedi infreddoliti, il bagno è distante per le pinte della notte appena trascorsa. “Arrivo. Tra un po’…”. “Avanti T! Tuo nonno ti sta aspettando”. Il duello con lo specchio è perso in partenza, Thomas ne evita l’adolescenziale giudizio, inondando rapidamente lo spazzolino di dentifricio e sedendosi violentemente sulla tavoletta crepata. Uno sguardo fuori dalle tende ingiallite, punteggiate da sbiadite farfalle, Liston a Natale è quella di sempre: la fitta foschia ad accecare la vista, la spolveratina di neve a camuffare le strade poco vissute. Effetto “zucchero filato”, ecco come lo definiva Thomas, scherzandoci con gli amici sul bancone del Goat. Un effetto ottico rarissimo, dicevano, soprattutto dopo una sbornia a base di lager: “La nostra fottuta aurora boreale…”. La presenza del nonno è un chiaro segnale: anche questo Natale niente pranzo a tavola, niente stufa calda e pudding. “Maledetto Liston!”.

L’AFC Liston, un minuscolo puntino della mappa calcistica britannica: più che minuscolo, invisibile. Nessuno conosce l’AFC Liston. Spulciando nei polverosi almanacchi si scopre che è famoso, in oltre un secolo di storia, per aver siglato in una stagione intera solamente gol di testa (13 per l’esattezza). Alcuni la ricordano come la “stagione degli scalzi”, altri come l’annata delle “teste d’oro”, altri ancora non la ricordano nemmeno.  “Chi me lo fa fare d’andare a vederli ancora?”. Le scale scricchiolano sotto il peso degli sbuffi di Thomas. Il nonno, meticoloso, osserva il nipote sorseggiando della lava rosata: indossa il cappellino e la sciarpa della sua squadra, sobriamente dipinti di nero e rosso. “Buongiorno Thomas”, danzano le reverenti rughe. Thomas sussulta, come sempre, davanti a quella figura. Si gioca a Natale, anche quest’anno: una tradizione cominciata nel lontano ’35, almeno a detta dei saggi anziani. Quell’anno l’AFC Liston fu costretto a giocare il giorno di Natale a causa della prima “Fiera del Gabbiano”; motivi di ordine pubblico, si diceva, impossibile far coincidere i due eventi. Thomas non si era mai spiegato il perché di quella fiera, il perché venisse organizzata, puntualmente, tra il 26 ed il 30 dicembre, il perché vi prendesse parte gente da tutta Europa e, soprattutto, che cos’avessero a che fare dei gabbiani con un paese disperso nel cuore del Galles rurale. Domande che frullavano in mente ogni Natale. Domande che non ottenevano mai una risposta convincente.

La passeggiata lungo Cowcross Street ha uno strano sapore, un misto tra l’aroma del caffè appena bevuto e la puzza di cantina ammuffita; la passeggiata lungo Cowcross Strett ha anche uno strano ritmo, simile a quello delle cantilene popolari: per Thomas questo tragitto ha sempre avuto un valore mistico, il nonno al suo fianco, le Gazelle in equilibrio sul bianco vuoto del nevischio. Un breve viaggio soprannaturale, inebriante per i suoi curiosi diciassette anni: “Non ti ho mai parlato di Steve Sullivan, che giocatore Steve Sullivan. Pensa, Thomas, che aveva un paio di tacchetti anche sulla punta della scarpa. Glieli montava il vecchio Frank, nella ferramenta di St John Street. Gli avrò visto infilzare decine di caviglie e bucare un paio di palloni: quello sì che era un mediano”. La nebbia si dipinge di leggende popolari, immagini folcloriche tramandate oralmente, eroi d’un football sperduto: “E lo smilzo Jordan, ah lo smilzo Jordan. Un’ala mancina sublime, fu uno dei primi a giocare a piede invertito sulla fascia opposta a quella naturale. Lo chiamavamo il “giardiniere”, lavorava per il comune e potava le piante a destra e a manca, poi, le mattine delle partite, piombava in campo con una torcia e metteva delle ciocche d’erba finta in due o tre punti strategici dove preferiva calciare, in modo che la palla non rimbalzasse male. Che genio lo smilzo Jordan, adesso gioca alle slot di professione, dice”.

Passo dopo passo, storia dopo storia, ecco apparire la sagoma spettrale del The Nest, il nido dei gabbiani (d’altronde come altro avrebbero potuto chiamarsi…). Due tribune tremolanti, geometricamente imperfette, dipinte da poco di rosso e nero. Thomas osserva quel crogiolo di mattoni ed acciaio attraverso gli occhi scintillanti di suo nonno. “Il vecchio Nest…”, diceva sempre così, con una flebile voce, ammirandolo da lontano: Thomas non aveva mai capito se fosse una frase scaramantica o, più semplicemente, una preghiera profana rivolta alla sua seconda casa, una sorta di segno della croce ormai istintivo. “Birra e noccioline, Thomas?”. Il Goat si affaccia pallido proprio sul Main Stand, l’ingresso principale del The Nest. Thomas saluta con un cenno Aaron, il figlio del padrone, capisce dai suoi occhi che anche lui non ha smaltito del tutto la sbronza della sera precedente. Un gruppetto di venti, venticinque persone sta già parlando di football stipato tra i tanti tavolini di legno scuro. “Il mister non capisce, dovremmo giocare come il WBA. La nostra punta, quel carpentiere della bassa valle è uguale al loro americano. Rodo, Roden. Come si chiama?”, “Rondon, Rondon, ed è venezuelano. Prima di giocare come il WBA bisognerebbe insegnargli, semplicemente, a giocare a calcio…”. Il calore delle risate, il calore del Natale. L’AFC Liston gioca in qualche categoria minore gallese, la maggior parte dei tifosi non ne conosce il nome. Dovrebbe essere la seconda dal basso, ragiona Thomas. L’anno precedente si era festeggiata una salvezza proprio lì, al Goat, il tavolo da biliardo era rotto da quella serata: quando Mike e Kenny avevano finto un amplesso nel culmine della gioia incontrollata, finendo in ospedale con un paio di costole rotte. Suo nonno era lì con lui, anche quella sera, con una calma pinta di Newcastle in mano e gli occhi illuminati.

Il Main Stand non è solo l’entrata principale, funge anche da sede della società, da magazzino degli attrezzi e da dormitorio per i giocatori meno abili ad affrontare i fantasmi spinati del Goat. “Io e mio nipote”, il nonno l’aveva sempre fatto. I due biglietti nella sua mano, comprati il giorno precedente e sventolati davanti all’addetto con soddisfazione, ostentando il giovane tifoso al suo fianco. Thomas in fondo lo sapeva, era una questione di estremo legame, di estremo orgoglio, e poco importava che potesse apparire come un uomo incapace di tenere in mano il proprio biglietto. “Ci siamo, vedo già quei mangia lumache!”. Quante volte il nonno aveva gestualmente salutato i tifosi ospiti arroccati nella parte alta dell’East Stand, era diventato ormai un gesto automatico, eppure non perdeva mai la carica viscerale, tribale, umana. Il Nest si riempie e l’effetto “zucchero filato” non sembra passare, anche questo Natale. Thomas respira profondamente i volti dei suoi compagni di fede che, lentamente popolano le accoglienti gradinate. Ci sono tutti. Prima uno sguardo all’orologio, un’ora al calcio d’inizio, come vuole nonno; poi le mani in tasca, in attesa del primo scroscio alla vista del rosso e del nero. Si appendono gli striscioni, si salutano i vicini, si fanno le solite battute: “Anche oggi siamo l’unico paese senza pranzo in tavola, eh Patty?”, ridono due signore.

Le squadre in campo incorniciano il cerchio di centrocampo. L’arbitro fischia eppure la sfera resta immobile, rispettosa. I ragazzi dell’AFC Liston sono stretti tra loro, formano un’unica linea spaiata solo da alcune teste che guardano verso l’alto, fisse. Tutto il popolo di Liston è raccolto sugli spalti. Le menti, disperse, inciampano nel bosco di ricordi. Thomas osserva la scena con un fuoco bollente appena sotto la giacca, appena sotto il maglione, appena sotto la canottiera. Al suo fianco c’è uno spazio vuoto, un’usurata gittata di cemento in cui scorge le impronte d’un paio di scarpe. Thomas si rende conto solo ora che questa mattina suo nonno non l’ha aspettato meticolosamente in sala da pranzo, non l’ha accompagnato come un’equilibrista sulla corda ghiacciata di Cowcross Street, non ha condiviso con lui la classica pinta di calma Newcastle. Thomas ha le mani giunte dietro la schiena. Stringono un solo biglietto, il suo.

L’intero popolo di Liston comincia, accompagnato da un’invisibile orchestra, ad intonare l’inno dei gabbiani. Thomas si schiarisce la gola. Non è un ragazzo come gli altri, anche in questo momento. “… e mai mi stancherò di viverti da qui.” tuona l’ultimo spirituale ritornello dell’inno. “Grazie per il regalo di Natale, nonno”.

 

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Sono Gianmarco Pacione ed ho 24 anni. Studio Lettere Moderne nella città in cui sono nato e cresciuto, Verona. Amo il calcio aneddotico, il calcio rarefatto, il calcio lontano dai riflettori. Mi entusiasma la componente sociale e popolare di questa religione, l’incredibile capacità d’essere un collante trasversale ed eterogeneo. Proprio da queste riflessioni è nato “Parterre, note di calcio romantico”, un progetto che si è evoluto nel tempo, maturato insieme al brillante genio di Gian Maria Campedelli, mio compagno di viaggio. Nell’ultimo periodo il blog ha subito una diminuzione d’attività a causa del grande lavoro prodotto per creare un vero e proprio sito in vista del prossimo anno: non temete, quindi, a brevissimo torneremo attivi. Il mio giocatore preferito nonché musa ispiratrice? Rinaldo Cruzado.

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