Calcio
Cose dell’altro…Calcio di Mattia Grandi
Nove lunghi anni. Un’eternità da quel 14 febbraio 2004. Non ho mai più guardato una corsa ciclistica, non ci riesco, non ne ho voglia, non mi piace. Manca sempre qualcosa. Sbaglio e ne sono consapevole però gira così. Il ciclismo per me è stato e sarà sempre Marco Pantani. Cesenatico, estate 1996, i miei diciassette, quasi diciotto anni. Il treno dalla stazione di Imola parte alle 7.16, zaino in spalla, occhiale d’ordinanza, un nugolo di fedeli amici, sempre (ancora oggi) gli stessi. Direzione mare, Cesenatico Beach, la nostra California. Sono le prime trasferte “on the road” senza i genitori, lo stato d’animo è quello di un hippy in partenza per Woodstock. A diciotto anni il mondo e la vita sono ai tuoi piedi. Il massimo della sfiga? Sbagliare i quiz per la patente e rinnovare il foglio rosa. Un’età bastarda, l’illusione che con 42/60 all’esame di maturità il peggio è passato per sempre. Anni di grandi sogni e genuine illusioni, l’ormone in subbuglio, il male ai maroni. La brezza mattutina sul Porto Canale di Cesenatico è una amalgama di profumi, suoni e colori. Il campanello di una bicicletta, il verso dei gabbiani, i pescherecci che rientrano dopo una stellata notte al largo. Il profumo del pane e del caffè, la cameriera che con un veloce colpo di spugna cancella dai tavolini i postumi della movida serale. Il cielo è azzurro, non c’è una nuvola, il tepore del sole appena sorto riscalda l’anima dei novelli viaggiatori. Direzione Bagno Adriatico, poche lire nelle tasche, ci sono i nonni di un amico che hanno l’ombrellone prenotato per tutto il mese di giugno, libidine. A noi poi del sole e del mare non ci interessa un fico secco, il tavolino da ping pong e le adolescenti romagnole sono il vero motivo della trasferta. Cesenatico è la città di Marco Pantani, l’astro nascente del ciclismo nazionale e portacolori del team Carrera Tassoni. Un eroe da queste parti. Esaltanti vittorie di tappa nel Giro d’Italia 1994 a Merano e all’Aprica, il secondo posto in classifica generale dietro a Berzin, un Tour de France sul gradino più basso del podio dopo il cyborg Indurain e la chimera Ugrumov. La faccia pulita di un romagnolo che in salita stacca tutti ed in discesa si accovaccia sulla sella in modo tanto buffo quanto esaltante. Poi, due gravi e sfortunati incidenti, una carriera seriamente compromessa. Cazzarola mi piacerebbe incontrare dal vivo Pantani, la mamma ha un chiosco di piadine da queste parti, a piedi però è troppo lontano. Magari non è nemmeno a Cesenatico, questo ha fatto i soldi, sarà ad Ibiza. Al Bagno Adriatico la maglietta Carrera autografata da Pantani campeggia orgogliosa nei pressi del grande televisore. Alle 15 c’è la tappa del Giro, un salto più tardi davanti alla tv lo faccio sicuro. Il tavolino da ping pong è la nostra base, il punto nevralgico degli schemi d’attacco, tutto passa da li. Le fanciulle meritano parecchio, sono tutte abbronzate, bellissime e sorridenti. Non sono mai stato un grande ariete da intorto, con il tempo ho affinato le tattiche. Troppo timido, impacciato e con una gran paura di colpire il palo. Getto qualche velata esca, intuisco che ci sono gerarchie prestabilite, quella che piace a me è la promessa girlfriend del Ras del quartiere. Strano. Mezzogiorno di fuoco al Merendero, panino e acqua potabile dalla fontanella. Zona d’ombra conquistata in prossimità del tavolo verde con rete, sguardo annoiato, calma piatta. All’improvviso un rombo assordante, una Harley Davidson nera lucente con fiamme aerografate sul serbatoio. In sella un figurino esile in tshirt e jeans corto stracciato. Ray-Ban sul naso, in testa una scodella nera ben allacciata, nei piedi un paio di scarpe da ginnastica. Un bel tamarro romagnolo, ci manca anche questo. Parcheggia a due metri dal nostro covo, si toglie la scodella dal capo….è Pantani. Cosa ci fa uno scalatore alle tre del pomeriggio con quaranta gradi all’ombra al Bagno Adriatico? Semplice, guarda la tappa del Giro d’Italia. Mi fiondo all’interno del bar, lui è seduto in platea. Non se lo fila nessuno. Gli guardo le gambe e le caviglie come in una bella donna. Magre, esili, sono quasi più grosse le mie. Fisico asciutto, nulla di marmoreo o scolpito. Sembra impossibile. Sullo schermo della tv parte la sigla del Giro d’Italia 1996, la canta lui, una sorta di parodia canora sul suo sfortunato forfait dalla corsa a tappe nazionale. Pantani è in tv e, contemporaneamente, ad un metro da me. Sul tavolino c’è una riduzione da discoteca con il retro bianco, chiedo la penna al barista. “Scusa Marco, me lo firmi il biglietto?”. “Certo, come ti chiami?”. “Mattia, sono un tuo tifoso. Ti disturbo se mi siedo qui vicino a guardare il Giro?”. “Scherzi, tranquillo, c’è solo che del posto, speriamo ne valga la pena”. “Tu come stai?” “La riabilitazione è quasi terminata, faccio ancora qualche giorno di vacanza e poi si torna al lavoro. Rientro presto!”. Non proferisco più verbo per tutte le seguenti due ore di diretta tv, sono in apnea, non voglio disturbarlo. La tappa è una palla mostruosa, lui è tranquillissimo, quasi in svacco. De Zan conclude il racconto del pomeriggio ciclistico, il non ancora Pirata si alza dalla sedia. “Ti saluto Mattia, vengo qui ogni pomeriggio a guardare le tappe, magari ci si rivede!”. Il rombo della Harley è già lontano, esco dal Bagno Adriatico con la mia dedica autografa. Gli amici sono in fase di intorto selvaggio, a me delle tipe non interessa più un tubo. In quel lontano giugno del 1996 tornai altre due volte a Cesenatico, al Bagno Adriatico. Solo per lui. Identico rituale. La chiassosa Harley alle tre meno dieci è già li. Scodella nera in testa, pelata lucida, gambe e caviglie sottilissime. Con quelle esili leve due anni più tardi conquisterà il mondo, Giro più Tour, Marco Pantani, il Pirata. Nel 1999, all’apice della carriera, la caduta degli Dei a Madonna di Campiglio. Mille dubbi, centinaia di interrogativi, tante porcate e molti, troppi orrori. Il viaggio dal paradiso all’inferno ha un biglietto di solo andata, alle fragilità di un ragazzo di 34 anni non pensa nessuno. Fallace, come ogni essere umano. L’errore più grande, la cocaina, l’ha scontato sulla sua pelle. Oggi le parole di Armstrong suonano beffarde. Un outing in clamoroso ritardo con la tabella di marcia chiamata vita. L’Elefantino romagnolo l’ha sempre staccato in salita e il dopato non era Marco. Mica un eroe, solo un campione. Non guardo più le corse ciclistiche, non ci riesco, non ne ho voglia e non mi piacciono. Manca sempre qualcosa. In tv e al Bagno Adriatico.
Mattia Grandi
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