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Calcio

EuRoad. Episodio 4: Euro 1976

La Cecoslovacchia vince l’unico alloro della sua storia con un colpo d’arte. La Germania Ovest, per una volta, è tra gli sconfitti.

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Ci sono delle giocate nella storia del calcio che suscitano emozioni che vanno ben oltre la meraviglia del mero gesto tecnico. Ci sono dei colpi che attraversano l’immaginario e si incastonano come una vera e propria opera d’arte nella memoria collettiva. Sono dei colpi talmente improvvisi e perentori da sconvolgere chi guarda, creando la consapevolezza che, dopo aver assistito a un momento incredibile come quello, non si potrà più essere gli stessi.

E poi c’è un altro tipo di giocata. Quelle talmente innovative da diventare un marchio di fabbrica, il cui ingresso nella storia è talmente prepotente da diventare capostipite di un’eredità che attraversa le epoche, i decenni e i colori. Ecco.

Il 20 giugno del 1976, allo Stadio Crvena Zvezda di Belgrado, un pittore non famoso, perso nella nebbia di un calcio lontano geograficamente ed emotivamente dal nostro, ha dipinto un’opera di stordente bellezza e impatto straordinario. La partita è Cecoslovacchia – Germania Ovest. L’esito appare scontato, ma in questa storia di scontato non c’è niente.

Siamo nel 1976, in Jugoslavia, nel pieno dell’epopea di Tito. Il Maresciallo morirà quattro anni dopo, ma il calcio lì in quella zona così grigia d’Europa, dal nostro miope punto di vista, non morirà mai. Anche, se non soprattutto, per merito di quel gesto così improvviso, così lacerante nell’animo da spegnere gli ardori della Germania Ovest campione del mondo. Il pittore è un centrocampista baffuto e capace di dare il suo nome a un rigore da leggenda.

Bentornati a Euro ‘76.

Si parte

Il campionato europeo, come abbiamo già visto nelle scorse puntate, non ha sempre avuto la stessa formula. Il regolamento per l’edizione del 1976 prevede trentadue squadre ai blocchi di partenza, suddivise in otto gironi all’italiana, di quattro squadre ciascuno, con gare di andata e ritorno. Solo le vincenti di ciascun gruppo avrebbero guadagnato il diritto di giocare i quarti di finale, anch’essi di andata e ritorno, per poi arrivare alla rosa delle quattro che si sarebbero giocate la fase finale in casa di una delle nazionali semifinaliste.

Il Gruppo 1 vede la Cecoslovacchia sovvertire il pronostico ed eliminare Portogallo e Inghilterra, oltre che il fanalino di coda Cipro incapace di portare a casa alcun punto.

Allenatore dei Sudditi di Sua Maestà era, nientepopodimeno, che Don Revie. Ex tecnico del Leeds United campione di tutto in patria. Di lui si è detto e scritto tantissimo, ma nella memoria collettiva resta storica la rivalità, mai nascosta, con Brian Clough, altro allenatore leggendario e capace, in soli tre anni, di portare il Nottingham Forrest dalla Seconda Divisione al tetto d’Europa. Un pezzo di storia del calcio inglese talmente ingombrante da diventare prima un libro e poi un film dal medesimo titolo: “Il maledetto United”. Un romanzo narrante la storia dei quarantaquattro, fallimentari, giorni di Clough alla guida del Leeds. Appena successivi, appunto, al passaggio di Don Revie alla guida della nazionale inglese. 

Ma quell’Inghilterra non andrà lontano, come abbiamo visto, a vantaggio di una Cecoslovacchia che, invece, ritroveremo eccome in questa storia.

Un assente di lusso

Nel Gruppo 3, ad assicurarsi il passaggio del turno è la Jugoslavia. Ma c’è un giocatore, nell’Irlanda del Nord che arriva seconda, che non partecipa alle eliminatorie, spostando di molto gli equilibri e abbassando decisamente le possibilità di qualificazione per la sua squadra.

In quel momento la caduta libera nel baratro dell’alcolismo è già nella fase più intensa; è perso nel suo vagare per il mondo alla ricerca di una propria dimensione calcistica; ma il ricordo del giocatore che era stato rimane negli occhi di chi gli aveva visto realizzare i sogni nel luogo in cui solo gli eletti possono, l’Old Trafford di Manchester. 

Capace di una coordinazione nel breve mai più ripetuta, un prestigiatore con la palla sempre incollata al piede, la cui velocità nell’agire superava la velocità di pensiero degli sfortunati difensori. E poi quei capelli al vento, quell’aura di malinconia che gli ha permesso di essere il Quinto Beatle. Non appena abbiamo intravisto quello che poteva essere, il sipario è calato. 

Perché come dicono dalle sue parti, nei sobborghi di Belfast: Pelè good, Maradona better, George Best.  

Il fallimento azzurro

A questo punto della storia è lecito porsi una domanda: e noi?

Poco più di un lustro prima ci siamo laureati campioni d’Europa, poco più di un lustro dopo ci laureeremo campioni del mondo, ma in questa fase di interregno? Male, anzi malissimo.

In panchina siede uno strano duumvirato, come a sottolineare uno storico passaggio di testimone da un’epoca a un’altra, formato da Fulvio Bernardini e Enzo Bearzot. Poco più di due anni dopo, il nostro CT farà meravigliare il mondo intero quando saremo gli unici a battere l’Argentina nel mondiale più controverso di sempre.

Ma in quella precisa fase storica non siamo granché. A Rotterdam, nel novembre del ‘74, non c’è proprio partita. Andiamo anche in vantaggio, al 4’, con un colpo di testa di Boninsegna, ma da lì in poi il muro azzurro crolla. L’Arancia Meccanica olandese ci sbatte in faccia il proprio incredibile calcio totale e finisce 3-1.

Le cose, poi, non fanno che peggiorare. 0-0 con la Polonia che già ci aveva eliminato nell’ultimo, sciagurato, mondiale tedesco. Poi 0-1 a Helsinki e nel ritorno della gara contro i finlandesi non andiamo oltre lo 0-0.

Nel novembre del 1975, per effetto di un altro scomodo pareggio a reti bianche a cui ci hanno costretto i polacchi, ospitiamo l’Olanda da già eliminati. Agli Orange basta perdere con un gol di scarto per vincere il Gruppo 5 e va esattamente così: al 20’ Capello gira di testa una bella punizione di Causio che vale l’1-0 e poi gli olandesi si abbandonano a una melina tristissima che scrive il mesto finale della nostra avventura. Agli europei non ci andiamo, ma è da lì che Bearzot comincia a vedere del materiale su cui cementificare il gruppo che, sette anni dopo, alzerà al cielo di Madrid la coppa del mondo.    

Il cuore irlandese non basta

Nel Gruppo 6 a staccare il biglietto per i quarti di finale è l’Unione Sovietica, ma c’è una squadra che rende più impervio del previsto il percorso ai sovietici.

La allena Johnny Giles, bandiera proprio di quel Leeds United allenato da Don Revie che abbiamo citato poc’anzi.

La sua è una buona Irlanda. Politicamente il paese ha appena vissuto lo storico ingresso nella CEE, a testimonianza di un netto e decisivo taglio con il passato. A Dublino, il 30 ottobre del 1974, la Jack’s Army distrugge senza appello i sovietici: 3-0 con tripletta di Don Givens che migliorerà, addirittura, lo score esattamente un anno dopo nel 4-0 alla Turchia, calando l’unico poker della storia della nazionale irlandese. Ma questo doppio, clamoroso, exploit non basterà per passare il turno.

Quarti di finale

Ad aprile ‘76 si parte con i quarti di finale. Forse ai nastri di partenza non ci sono le otto formazioni più forti del panorama europeo, ma i confronti suggestivi non mancano.

La gara che appare più scontata è Jugoslavia – Galles. I plavi sono guidati in panchina da Ante Mladinic, un bosniaco con una grande fiuto per i giovani talenti, tanto da aver chiuso la sua carriera da allenatore nelle giovanili del Bordeaux dove scoprirà un giovanissimo Bixente Lizarazu. 

La partita è segnata dal gol immediato di Vukotic che, dopo neanche un minuto, addomestica un tiro sbilenco di un compagno e chiude in porta un destro imprendibile per il portiere gallese. I Dragoni ci provano, ma ad inizio ripresa Popivoda legge il colpo di testa e si avventa in spaccata per mettere dentro da due passi. Il 2-0 è una montagna troppa alta da scalare, anche per i temerari cuori gallesi.

Al ritorno la Jugo gestisce e finisce 1-1. E questa è una semifinalista.

Germania Ovest più forte, ma la Spagna ha un condottiero in panchina

La Germania Ovest, dopo aver dominato il girone di qualificazione, si trova contro la Spagna.

Allo Stadio Vicente Calderon di Madrid, il 26 aprile del 1976, spira un vento di libertà. Siamo nel pieno della transizione democratica, il regime franchista è definitivamente caduto pochi mesi prima, con l’assissinio da parte dell’ETA di Luis Carrero Blanco.

Il paese tornerà alle urne, per la prima volta dopo oltre venticinque anni, di lì a pochi mesi e il calcio, cuore pulsante dello strato popolare della popolazione, ci va assieme.

Quella è la squadra di László Kubala in panchina. Questo è un personaggio chiave della storia del calcio del Novecento.

Uno dei pochissimi giocatori ad aver vestito la maglia di tre nazionali diverse, la sua parabola assume contorni mitologici, come è possibile solo nei romanzi di calcio magiaro. Dopo una breve parentesi allo Slovan Bratislava, che gli varrà anche una manciata di presenze con la maglia della nazionale, prova il grande salto. Dopo il ritorno in patria, a marzo del 1949 scappa dall’Ungheria, direzione Italia. Scappa letteralmente. A bordo di un camion di esuli in fuga. Arrivato in Italia si accasa alla Pro Patria, ma il regime comunista mal digerisce la sua fuga e gli infligge una squalifica a vita.

La sua permanenza a Busto Arsizio dura qualche mese, ma non può giocare partite ufficiali e, così, subentra la dirigenza del Barcellona che se lo porta via, concedendogli anche la cittadinanza spagnola. Ecco, diciamo che la sua esperienza in blaugrana non passa esattamente inosservata. Anche perché se scorriamo la classifica stilata da IFFHS dei migliori calciatori del secolo, Kubala si trova alla posizione 32. Non male. Non male davvero visto che con la maglia del Barca totalizza 131 gol in 186 presenze.

In una partita del 1952 segna sette gol. Sì, avete letto bene. Sette. Record tuttora imbattuto, ovviamente. 

Ma di fronte alla sua Spagna c’è la Germania campione del mondo. E si sa che i tedeschi non vanno per il sottile.

A Madrid finisce 1-1, a Santillana risponde Beer, ma a Monaco, un mese dopo, la Mannschaft chiude la pratica nel primo tempo: 2-0 e fase finale conquistata.

Olanda e Cecoslovacchia: due posti prenotati per la fase finale

Ancora più facile il compito per l’Olanda che dà cinque gol al Belgio nella gara d’andata, rendendo sostanzialmente un’amichevole il ritorno a Bruxelles.

Il quarto di finale più interessante diventa, quindi, Cecoslovacchia – Unione Sovietica. E questa non può essere una partita come le altre. Sono passati solo otto anni dalla Primavera di Praga e nel teatro simbolo dell’altra anima cecoslovacca, il Tehelné pole di Bratislava, la squadra di Vaclav Jezek vince 2-0, in un contesto ossianico in cui il calcio, ancora una volta, diventa voce di dissenso, di rivalsa, ma anche di unione. Al ritorno, previsto a Kiev, l’URSS ci prova, ma i cechi grazie a una doppietta di Moder non rischiano mai di capitolare e si qualificano.

La sorpresa della Cecoslovacchia

E il quadro delle semifinaliste è completo. L’europeo può prendere davvero il via.

La sede scelta è la Jugoslavia che punta sui suoi più di grandi impianti: al Maksimir di Zagabria sarà Cecoslovacchia – Olanda; e al Marakana,che però non si chiama ancora così, di Belgrado sarà Jugoslavia – Germania

Sembra tutto apparecchiato per la grande rivincita del mondiale di due anni prima, ma non va così. 

Anche perché l’Olanda non è la stessa che ha incantato il mondo due anni prima.

Sono fortissimi, questo è evidente, ma l’impressione è che la straordinaria epopea del calcio totale abbia già suonato l’ultima grande ballata. Nella finale mondiale del ‘74, gli Orange hanno realizzato un’opera irripetibile.

É un’opera di solfeggio con influenze calcistiche. Tengono la palla per un minuto e dieci secondi e poi, un giocatore segnato dalle stelle come Johan Cruijff cambia passo, accelera e viene atterrato. Rigore, gol e vantaggio. Qualunque squadra dopo un inizio del genere non avrebbe neanche la forza di portare la palla a centrocampo, ma i tedeschi.

L’abbiamo detto tante volte della loro forza mentale. Non c’è bisogno che vi dica come va a finire.

E qualcosa si è rotto dopo quella finale mondiale, la squadra è ancora fenomenale, ma Michels è andato via e non tutto gira come prima. 

Infatti in vantaggio ci vanno i cecoslovacchi. Minuto 19. Punizione da sinistra e Anton Ondruš, professione centrale difensivo, incorna meravigliosamente: 1-0. 

All’ora di gioco le cose si mettono male per la formazione est-europea che rimane in dieci per il doppio giallo occorso a Polak.

E al 73’, il roccioso difensore che aveva portato in vantaggio i cechi come fa, disfa. Su un cross da destra, francamente leggibile, tenta di allontanare con un numero di coordinazione motoria che chiaramente non è nelle sue corde. Ne esce un goffissimo tocco di destro che batte il proprio portiere. Tutto da rifare.

Tre minuti dopo, però, la partita cambia ancora una volta melodia, riacquistando la parità numerica per il cartellino rosso sventolato in faccia a un incredulo Neeskens.

Ai supplementari, sotto una pioggia torrenziale che contorna la gara di un’atmosfera quasi epica, dopo più di venti minuti di tanti calci e poco calcio, la Cecoslovacchia trova il vantaggio. Vesely, entrato da pochi minuti, è freschissimo e riesce ad andare via sulla destra. Cerca un ambizioso traversone sul secondo palo che trova, puntualmente, il colpo di testa di Nehoda per il 2-1. A quel punto l’Olanda perde prima la testa, rimanendo in nove per l’espulsione di Van Hanegem, e poi la partita. La trappola del fuorigioco non funziona e Vesely, tutto solo, ha gioco facile nel saltare Schrijvers e consegnare alla sua squadra la prima, storica, finale europea della sua storia.

Pioggia, fango e colpi di scena: Jugoslavia – Germania Ovest

Se la prima semifinale era stata agonica, Jugoslavia – Germania Ovest sicuramente non è da meno.

I Plavi, sostenuti da un tifo assordante, attaccano incessantemente dal primo minuto. Al 19’ Popivoda controlla e, scivolando, mette dentro il pallone dell’1-0. E la Jugo non cessa di attaccare, la Germania appare tramortita. Alla mezz’ora Dzajic, la funambolica ala sinistra, segna un gol che non rispecchia le sue caratteristiche, ribadendo in rete una respinta incerta del portiere. 2-0 e tutti negli spogliatoi.

Ma mai dare per morti i tedeschi.

E, infatti, al 64’ Flohe viene lasciato colpevolmente libero a centro area in seguito a un calcio d’angolo. Non arriva a 1,75 ma salta e devia il pallone che riapre la partita.

A quel punto si fa durissima per la Jugo, i tedeschi sono più forti e hanno speso meno. La strenua resistenza jugoslava crolla a dieci dalla fine. La rete è la fotocopia della precedente: corner da sinistra e, stavolta, Mueller gira di testa per il 2-2 che porta la gara ai supplementari. E nel secondo tempo supplementare, lo stesso Mueller cancella ogni speranza jugoslava residua con due piattoni destri che sanno di sentenza. In finale la Germania Ovest potrà difendere il titolo conquistato quattro anni prima.

Una finale inaspettata: Cecoslovacchia – Germania Ovest

20 giugno 1976. Il giorno della finale arriva come un fastidio nei pensieri dei tifosi della Jugoslavia. Vedere la propria nazionale perdere era preventivabile, ma così fa malissimo. Quindi lo stadio di Belgrado è sonnacchioso e semivuoto.

Sembra tutto scritto per il back to back dei tedeschi. Troppo inferiore la Cecoslovacchia. Forse.

Forse perché all’8’ Švehlík porta in vantaggio i suoi. Succede di tutto nell’are di rigore tedesca. Masny recupera un pallone sanguinoso lasciato grondare sul lato corto dell’area da Berti Vogts; mette in mezzo per Švehlík che controlla con qualche difficoltà e calcia forte; Maier respinge in tuffo; la palla schizza verso Zehoda che rimette in mezzo rasoterra; Ondruš conferma di non essere esattamente un rapace d’area e manca clamorosamente l’impatto con il pallone, ma da dietro arriva ancora Švehlík a siglare il gol del vantaggio a porta ormai sguarnita.

La partita sembra seguire lo stesso copione della semifinale: 25’, Dobiaŝ addomestica una respinta della difesa e lascia partire un fendente chirurgico. Buca d’angolo, raddoppio e pronostico ribaltato.

Stavolta però i tedeschi ci mettono meno a scuotersi e, appena tre minuti dopo, ancora Mueller dimezza la distanza. Palombella precisa innescata dal destro di Bonhof e Dieter Mueller trasforma in acrobazia.

Da lì in poi è un lungo assedio. Quasi musicale nell’alzare il ritmo, nel cambiare la nota per trovare l’acuto decisivo. La Cecoslovacchia regge, Viktor alza un muro inespugnabile.

Sembra tutto pronto per il successo della squadra di Jezek ma, ad un solo giro di lancette dal triplice fischio di Gonella, Hölzenbein, veterano dell’Eintracht Francoforte anticipa di testa Viktor e regala i supplementari alla sua squadra.

E da lì il tempo, per i giocatori in campo, aumenta di velocità. I supplementari scorrono via tra stanchezza e fango e i primi sette rigori sono una sentenza: Masni, Nehoda, Ondrus e Jurkemik fanno centro, così come Bonhof, Flohe, Bongart per i tedeschi.

E poi d’un tratto il tempo si ferma. Stop. Come un fotogramma della memoria, come un’istantanea da regalare ai posteri. La Germania Ovest ha perso una sola delle sette volte che il suo destino si è deciso dagli undici metri. Indovinate quando? 

Hoeness alza sopra la traversa. E, quindi, sul dischetto si presenta il protagonista di questa favola incredibile. Abbiamo evitato di nominarlo, ma ha preso per mano la Cecoslovacchia lungo tutta questa storia. Il gol del 2-0 all’Unione Sovietica è suo; la punizione, da cui è scaturito il vantaggio di Ondruš contro l’Olanda, è partito dal suo piede. Ma per tutto il torneo ha deliziato con le sue giocate. Non partiva per essere un leader, ma lo è diventato con il tempo.

Un cucchiaio da leggenda. Cecoslovacchia in paradiso e Germania nel baratro

Si chiama Antonin Panenka e c’è lui sul dischetto. Gioca nel Bohemians Praga quindi, di fatto, nessuno l’ha mai visto giocare. Nessuno può sapere che si è preparato per mesi interi, che ha fatto le prove generali per quel rigore in un derby contro il Dukla Praga. Nessuno può sapere cos’ha architettato questo divertente centrocampista coi baffoni d’ordinanza per un giocatore dell’est negli anni Settanta. Non lo può sapere Sepp Maier, considerato come il miglior portiere del mondo. 

La rincorsa è lunghissima. Parte da fuori dall’area, fuori dall’inquadratura, come un presagio. Attenzione. Sta per arrivare qualcosa che non avete mai visto.

Arriva a massima velocità sul pallone, inganna anche Maier spostando il peso a destra, il portiere tedesco ci casca e Panenka scava.

Cucchiaio. Il primo cucchiaio nella storia. Per la storia. Del calcio e della Cecoslovacchia.

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