Calcio
FLOP 11: Talenti mondiali perduti – 12 lug
Questa è la mia personale classifica di quei talenti che da giovani facevano impazzire il mondo del calcio. Ragazzi sul cui futuro radioso giuravano gli esperti e che invece, in un modo o nell’altro, sono rimasti ai margini di quel mondo di cui avrebbero dovuto essere i protagonisti. Ho escluso quello che per me è stato il più grande rimpianto Nii Lamptey ed il più noto Kerlon, di cui ho parlato approfonditamente già in passato, così come i talenti perduti italiani a cui dedicai una classifica a parte. Rimangono comunque undici talenti rimasti tali, incapaci di evolversi in campioni affermati.
#11 – CAIO Ribeiro Decoussau
A vent’anni, Caio aveva il mondo ai piedi. Seconda punta rapida e tecnica e con un buon fiuto per il gol, si era imposto giocando da titolare con il San Paolo con cui aveva vinto in una sola stagione Supercoppa Sudamericana, Recopa Sudamericana e Coppa CONMEBOL segnando una quindicina di reti. Successivamente, nel Campionato del Mondo Under-20 andato in scena in Qatar aveva guidato il Brasile alla finale persa con l’Argentina: giocando in coppia con un’altra grande meteora, Reinaldo, aveva comunque colpito la critica conquistando il Pallone d’Oro come miglior giocatore della manifestazione. Venne acquistato dall’ambiziosa Inter per 7 miliardi di lire, ma in Italia la musica cambiò decisamente: 6 spezzoni di gara dimostrarono che forse il talento non bastava, e la stagione successiva al Napoli, dove di partite ne gioco ben 20, lo confermò. Lasciata l’Italia senza aver segnato nemmeno un gol, Caio aveva però tutto il tempo del mondo davanti a se per riconquistare le luci della ribalta, ma non ci riusci. “O Douthorinho” (“il Dottorino”, soprannome datogli per via del suo aspetto sempre impeccabile) trascorse il resto della carriera strappando un ingaggio ora qui ora là in Brasile, trovando sempre qualcuno che giurava su un rilancio che non è mai avvenuto. A trent’anni arriva infine il ritiro: Caio, colui che faceva impazzire il Brasile (vanta anche 4 presenze e 3 reti con la Nazionale maggiore!) abbandona il calcio per diventare opinionista televisivo e modello.
#10 – KEIRRISON de Souza Carneiro
Questo attaccante dal nome rock n’ roll (il padre lo chiamò così in omaggio al proprio idolo, Jim Morrison) da giovanissimo questa prima punta ottima con entrambi i piedi e adattabile anche all’esterno stupì il Brasile con la maglia del piccolo Coritiba, portandolo in massima serie a suon di gol e poi, giunto nel “gotha” del calcio verde-oro, migliorandosi ancora: 21 reti a vent’anni, capocannoniere del “Brasileirao”, fenomeno sicuro. Pronto per l’Europa, pensano tutti, ed è così che dopo un passaggio ad una “big” brasiliana qual’è il Palmeiras,”K9″ (soprannome affibbiatogli dal procuratore) arriva il volo verso il Vecchio Continente. A spuntarla è il Barcelona, che supera Atletico Madrid, Liverpool, Real Madrid e Milan e se lo aggiudica per 15 milioni di euro mettendolo sotto contratto per la bellezza di 5 stagioni. E’ l’estate del 2009, e Keirrison dichiara entusiasta alla stampa la sua volontà di conquistarsi uno spazio in quella che è all’epoca la squadra più forte al mondo. Non la pensa così il tecnico Guardiola, che dopo pochi giorni lo spedisce in prestito al Benfica: è la prima tappa di un “giro del mondo” che lo porterà gradualmente a sparire dai radar del calcio mondiale. Infatti in Portogallo, chiuso da Mantorras, Saviola e Cardozo, Keirrison non trova spazio, e dopo appena sei mesi viene rigirato alla Fiorentina, sempre in prestito ma con diritto di riscatto fissato ai 15 milioni che è costato sei mesi prima. I Viola si guardano bene dall’esercitare tale diritto, anche perché pure in riva all’Arno il giocatore trova poco spazio – chiuso da Gilardino e Jovetic – e segna appena 2 gol (peraltro pesanti) in una decina di apparizioni. Il Barca lo gira in prestito al Santos, ma nemmeno con Ganso e Neymar il talento riemerge. Anzi, le numerose panchine ne segnano, a soli 22 anni, il definitivo tramonto, confermato dall’ennesimo prestito infruttuoso al Cruzeiro e infine dal “parcheggio” (prestito biennale) al Coritiba dove “K9” era esploso, e dove gioca a sprazzi e male fino a poche settimane fa, quando il contratto con il Barcelona termina. Adesso, a 25 anni e con la miseria di 9 reti segnate nelle ultime 5 stagioni, Keirrison è disoccupato e nessuno può ragionevolmente pensare di investirci. Il suo rock, purtroppo, è passato di moda.
#09 – Dmitri SYCHEV
Cresciuto nel modesto Spartak Tambov, dove gioca due stagioni nella seconda serie russa, si distingue come un ala rapida e abile nel dribbling tanto da attirare l’attenzione dello Spartak Mosca, una delle grandi del calcio russo che cerca di rastrellare i migliori giovani del Paese. L’impatto con la realtà moscovita è ottimo, visto che pur venendo utilizzato poco (ha appena 18 anni) segna un gol dietro l’altro trasformandosi da ala in attaccante puro e venendo rinominato dalla stampa mondiale “il Michael Owen russo”. Dopo una sola stagione lascia (non senza polemiche) la Russia per accasarsi all’ambizioso Olympique Marsiglia, dove però il suo talento sembra svanire anche a causa della sua duttilità tattica, che da pregio diventa un limite visto che viene continuamente sballottato in ogni ruolo dal centrocampo in su. E’ una stagione fallimentare, ma il ritorno in Russia nelle file del Lokomotiv Mosca, grande rivale dello Spartak, lo rigenera portandolo a vincere il titolo nazionale ed il premio di miglior giocatore del campionato. Purtroppo però finisce tutto lì, rimane ad ammuffire nelle retrovie della massima serie russa senza più particolari guizzi e perdendo anche la Nazionale, che lo aveva visto più giovane esordiente di sempre ad un Mondiale. Le ultime due stagioni lo hanno visto giocare (senza segnare) alla Dinamo Minsk e al Volga Novgorod, non esattamente due squadroni. Oramai trentenne, si può dire che il “Michael Owen russo” ha perso il treno giusto.
#08 – DONG Fangzhuo
Tutti conosciamo il giapponese del Manchester United Shinji Kagawa, e più o meno tutti conosciamo anche l’altro asiatico che lo ha preceduto, il coreano Park Ji-Sung. In pochissimi però ricordano colui che li precedette entrambi, “the Chinese sensation”, Dong Fangzhuo. Il manager dello United, Sir Alex Ferguson, lo ingaggio sulla base di entusiastici racconti di alcuni osservatori: mancando del permesso di soggiorno necessario per giocare in Inghilterra, i “Red Devils” spedirono questo attaccante cinese discretamente completo e molto giovane in un loro club affiliato, i belgi dell’Anversa, dove il ragazzo segnò 18 reti nella prima stagione e 11 (ma in appena 15 gare) nella seconda. Abbastanza per tornare al Manchester United e giocarsela per un posto? No, visto che in due stagioni finisce con lo scendere in campo appena una volta. Nel 2008 arriva la rescissione del contratto con i “Red Devils” ed il ritorno in Cina, accolto comunque da “star” perché non è da tutti arrivare a vestire (seppur per poco) la maglia del Manchester United. Peccato che sul campo il rendimento con il Dalian Shide sia tremendo: tra infortuni e cali di forma Dong gioca appena 5 gare in un anno e mezzo, prima di tornare in Europa: sei mesi infruttuosi al Legia Varsavia in Polonia ed un anno impalpabile ai portoghesi del Portimonense (ai quali lo raccomanda nientemeno che Cristiano Ronaldo, conosciuto allo United) portano ad appena 5 gare senza reti. Il gol, Dong, lo ritrova la stagione successiva: nel 2011/12 trova infatti un ingaggio nel Mika Erevan, campionato armeno. Segna 4 reti, interrompendo un digiuno che durava dai tempi dell’Anversa, ovvero quasi sei stagioni. Nel 2012, appena ventisettenne, torna in Cina trovando spazio nel modestissimo Hunan Billows, compagine che lotta per salvarsi nella seconda divisione nazionale e dove gioca tuttora. Inutile dire che i bei tempi del Manchester United sono ormai lontanissimi e sbiaditi ricordi.
#07 – Fernando CAVENAGHI
Per molti attaccanti sudamericani il passaggio dal paese natio all’Europa è un salto nel vuoto: qualcuno sboccia, fino a diventare un campione acclamato, mentre qualcun altro arranca qualche stagione fino a tornare ai ritmi decisamente più lenti della terra d’origine. E’ questo il caso di Fernando Cavenaghi, esploso giovanissimo con la maglia del River Plate dove in tre stagioni segnò la bellezza di 55 reti in 88 gare guadagnandosi attenzione da parte di molti club europei, che in lui intravedevano il nuovo Batistuta. Fu sorprendente che tra tanti club interessati la spuntassero infine i russi dello Spartak Mosca, che lo pagarono circa 7 milioni di euro e lo misero al centro del proprio attacco: il ‘puntero’ argentino però si trovò subito in difficoltà nel nuovo paese a causa della lingua, del differente stile di gioco e del clima e in tre stagioni non riuscì mai a imporsi, finendo con l’essere ceduto ai francesi del Bordeaux. Nel poco competitivo campionato dell’Esagono, “El Gordito Culòn” (soprannome decisamente poco affettuoso e riferito ai suoi larghi fianchi) parve ritrovarsi, e a cavallo del 2008 segnò con una certa regolarità vedendosi anche aprire le porte della Nazionale Argentina: un fuoco di paglia, però, perché dopo due stagioni la vena ritrovata si era già esaurita. Da allora un triste girovagare (Maiorca, Internacional) fino al ritorno in patria, ancora con la maglia del River Plate. La vecchia maglia risveglia antichi ricordi nel bomber, che segna 19 reti in 37 gare e si guadagna una nuova opportunità in Europa: il Villareal, caduto nella B spagnola, punta su di lui per risalire ma è un altro fallimento e dopo una stagione viene nuovamente ceduto. Dopo un’impalpabile esperienza nel pur non strepitoso campionato messicano (al Pachuca, dove segna la miseria di 4 reti in una stagione e mezzo) ecco il nuovo ritorno al River Plate, scivolato clamorosamente e per la prima volta nella sua storia nella cadetteria argentina. I numeri non sono strepitosi, stavolta, ma comunque migliori delle ultime annate: Cavenaghi aiuta “Los Milionarios” a tornare nella massima serie, pur perdendo man mano importanza nelle gerarchie del club. In ogni caso una carriera dignitosa e niente più – e solo con la maglia del River – per quello che una volta veniva definito senza ombra di dubbio il centravanti dell’Argentina del futuro.
#06 – Andrés D’ALESSANDRO
Tipico esempio di giocatore dal discreto spessore gonfiato esageratamente dai media sportivi, Andrés D’Alessandro divenne famoso in tutto il mondo calcistico intorno al 2000, quando i video delle sue prodezze cominciarono a girare per le trasmissioni sportive europee. Venne definito senza mezzi termini il nuovo “crack” del calcio sudamericano, e persino Maradona in persona disse che era “il solo giocatore che lo faceva divertire”.
Perché divertente era divertente, il piccolo fantasista del River Plate, soprattutto quando puntava l’avversario diretto e lo irrideva con “la boba”, una finta da fermo che intontiva (“emboba”) chi tentava di prendergli il pallone. Peccato che, spettacolarità a parte, l’efficacia del giocatore fosse tutta da dimostrare: se ne accorse il Wolfsburg, ai tempi ambizioso e danaroso club tedesco che si aggiudicò l’asta per quel piccolo fenomeno e che si ritrovò un giocatore sicuramente talentuoso e divertente, ma poco incisivo sotto porta e portato a cercare il colpo ad effetto a discapito della giocata semplice ma a volte efficace e necessaria. Pur conoscendo il suo periodo di maggior gloria (venne anche regolarmente chiamato dalla Nazionale argentina) durante la sua esperienza in Germania, fu presto chiaro che D’Alessandro sarebbe rimasto sempre un meraviglioso talento e nulla più. Dopo un infruttuoso prestito in Inghilterra al Portsmouth, i tedeschi lo cedettero in Spagna, al Real Zaragoza, dove parve ritrovarsi ma evidentemente non abbastanza se gli argentini del San Lorenzo sono stati il passaggio successivo. Nel 2008 i brasiliani dell’Internacional di Porto Alegre credono ancora nel 27enne funambolo argentino, ed è un matrimonio tutto sommato fortunato. D’Alessandro nelle ultime sei stagioni è diventato una bandiera del club, pur non avendo modificato di una virgola il suo approccio leggero e infantile al calcio. I tifosi però lo amano anche per questo, e anche la dirigenza non deve essere poi scontenta se è vero come si dice che ha rifiutato, circa un anno fa, un offerta di ben 10 milioni per lui da parte dei Los Angeles Galaxy. Perché il calcio, per qualcuno, è ancora divertimento.
#05 – Freddy ADU
Quando esordì, appena 14enne, nel campionato americano, in tanti si stropicciarono gli occhi. Eppure sarebbe bastato conoscere la sua storia per non stupirsi poi più di tanto. Freddy Adu era infatti cresciuto in Ghana giocando a calcio con gente che aveva il triplo della sua età, e quando la sua famiglia (che aveva vinto una “Green Card Lottery”) si trasferì negli USA, terra ai tempi poco avvezza al calcio, fu naturale che questo ragazzino rapido e scattante e dal controllo di palla fenomenale facesse faville.
Più giovane esordiente di sempre nella Major League Soccer, più giovane marcatore di sempre: se non bastasse, prestazioni sensazionali al Mondiale Under-20, disputato all’età di 15 anni. Tanto basta per suscitare l’interesse del Benfica, sempre alla ricerca di giovani talenti a basso costo: 2 milioni di dollari, per quello che tutto il mondo definisce “il nuovo Pelé” e “il futuro del calcio americano” non sono poi così tanti. Peccato che, improvvisamente, Adu smarrisca il proprio talento: gioca bene al primo anno in Portogallo, ma la stagione successiva viene spedito in Francia a farsi le ossa al Monaco. Nel Principato le cose non funzionano, come anche nella stagione successiva dove gioca poco nella prima parte ai portoghesi del Belenenses e male nella seconda con i greci dell’Aris. Il piccolo Freddy finisce nei bassifondi del calcio europeo, venendo dimenticato anche dalla Nazionale, e certo non aiuta la stagione in chiaroscuro giocata nella seconda divisione turca al Caykur Rizespor, dove perlomeno ritrovs una certa confidenza con il gol. Tornato in America come “stella designata” dei neonati Philadelphia Union, gioca discretamente e nulla più, quindi decisamente sotto le aspettative della nuova e mediocre franchigia. L’ultima stagione la passa in Brasile, nel Bahia, dove però non trova spazio che per due spezzoni di gara, quindi si ritrova, appena 25enne, svincolato. In questi giorni si dice che stia facendo un provino in Olanda, all’AZ Alkmaar: anche se andasse bene e strappasse un nuovo ingaggio, si può tranquillamente dire che il futuro del calcio americano è rimasto futuro. Ipotetico.
#04 – Mateja KEZMAN
Quando si è ritrovato a calciare il rigore valido per il terzo posto nella Asian Challenge Cup, Mateja Kezman deve essersi chiesto come potesse essere finito così in basso. Si parla infatti di una coppa di poca importanza e di un terzo posto che il “suo” South China, compagine di Hong Kong, stava giocandosi con il Guangzhou R&F, “cugina minore” della ricca squadra allenata da Marcello Lippi. Quando il tiro è finito fuori, ecco che il centravanti serbo deve aver capito che basta, era finita. E infatti pochi giorni dopo ha annunciato il suo ritiro.
Una fine ingloriosa per un attaccante che nei primi anni del 2000 aveva fatto parlare di se in tutta Europa per la sua media-gol impressionante: dopo essere esploso nel Partizan Belgrado, infatti, Kezman era stato acquistato dagli olandesi del PSV Eindhoven, che prima di lui avevano lanciato nel calcio che conta gente come Romàrio e Ronaldo. Con questo centravanti serbo rapido, sgusciante e abile con entrambi i piedi, gli olandesi parevano aver fatto l’ennesimo colpo: 24 reti in 33 gare il primo anno, 15 in 27 il secondo, poi le due annate da record. 35 reti in 33 gare nel 2002-2003 e 31 in 29 presenze la stagione successiva. Lo acquista il Chelsea, che lo paga anche relativamente poco (circa 8 milioni di euro) considerati i numeri mostrati. Purtroppo però in Inghilterra la carriera di Kezman invece di decollare prende un inesorabile declino: incidono le nuove abitudini, molti infortuni, una certa indolenza ed un carattere sicuramente fragile. Mourinho, che lo ha voluto ai “Blues”, ci crede, gli fa giocare molte partite ma i gol sono appena 4. Va in Spagna all’Atletico Madrid, ma le polveri sono sempre bagnate, soprattutto perché tutti si aspettano le medie mostruose degli anni olandesi. Perde la Nazionale, si fa due discrete stagioni in Turchia al Fenerbache che gli valgono una nuova possibilità nel calcio che conta, al Paris Saint-Germain, dove però le prestazioni sono a dir poco scadenti: in tre stagioni gioca 35 gare e segna la miseria di 5 reti, e nel mezzo c’è pure una dimenticabile esperienza in Russia allo Zenith. Nel 2010, trentenne, si trova svincolato e dimenticato da tutti, tanto da accettare il contratto del South China, campionato di Hong Kong, uno dei peggiori dell’intero pianeta per intenderci. E’ accolto come una star, ma se il livello tecnico del torneo è infimo ci vuole comunque un entusiasmo che ovviamente Mateja non ha: finisce per giocare appena 6 gare segnando solo 2 gol in un campionato che ha esaltato in passato autentici carneadi (qui divenuti idoli) come l’inglese Dale Tempest. Le ultime tappe di una carriera che poteva essere fantastica sfiorano il ridicolo: viene ingaggiato dai bielorussi del BATE Borisov per essere “l’uomo in più” in Champions League, ma tra campionato (6 gare) e appunto Europa (5 gare) non segna nemmeno un gol, confermando un declino inesorabile che viene reso ufficiale nella sua ultima esperienza, il ritorno appunto al South China narrato in apertura. Si conclude così la carriera di un attaccante che per alcune stagioni è stato sicuramente il più prolifico d’Europa e che poi è finito ad arrancare dietro al pallone nei campionati minori asiatici.
#03 – Sebastian DEISLER
Il calcio tedesco ha sempre prodotto giovani talenti, non è certo una tendenza venuta fuori negli ultimi anni: in Germania, se hai talento e sei bravo, i grandi club ti danno subito una possibilità, e difficilmente un giovane deve attendere. Di certo non ha dovuto attendere Sebastian Deisler, fulgido talento esploso nel Borussia Mönchengladbach appena maggiorenne e definitivamente diventato una stella del calcio tedesco con la maglia dell’Hertha Berlino. Rapido, dotato di una tecnica ottima e di una visione di gioco davvero rara, Deisler era principalmente un ala destra che però poteva disimpegnarsi anche nel centro del campo i cui cross e passaggi erano precisissimi. Il suo tiro da fuori, potente e preciso, lo rendeva un pericolo per i portieri, che dovevano stare attenti a non farsi trovare troppo lontani dai pali per non essere beffati. Un talento fulgido, come pochi in quegli anni, che nell’estate del 2002 passa al prestigioso Bayern Monaco e che è già un punto fermo della Nazionale che si avvia a disputare i Mondiali del 2002. Deisler però non ci sarà, visto che poco prima della partenza verso Giappone & Corea si infortuna al ginocchio destro: sarà, purtroppo, il “leit-motiv” della sua carriera, che lo vedrà saltare anche gli Europei del 2004 e i Mondiali in casa del 2006. In quattro stagioni e mezzo al Bayern Monaco gioca appena una sessantina di gare: poco dopo essere tornato nel 2002, infatti, si rompe il legamento crociato e passa molti mesi in infermeria, quando torna in campo affiora però la depressione nata nel lungo stop. Ci vogliono mesi di cure e di psicologo, ma finalmente nel 2004-05 sembra tornato: gioca 23 gare, un’enormità considerata la sua media in carriera, ma quando tutto sembra andare per il meglio arriva un nuovo infortunio la stagione successiva, ancora il ginocchio. Prova a recuperare per il Mondiale, non ce la fa. Ritorna la depressione, e infine l’annuncio che stupisce il mondo del calcio ma non chi gli è sempre stato accanto: i troppi infortuni hanno minato il fisico, la depressione ha fatto lo stesso con la mente. “Forse – dirà poi – non ero fatto per il mondo del calcio.” Si ritira ad appena 27 anni, nell’età che avrebbe dovuto vederlo al massimo del proprio potenziale e che invece lo ha visto sparire da quel mondo dove era esploso giovanissimo. Sebastian Deisler è sicuramente uno dei più grandi rimpianti che il calcio avrà mai.
#02 – DENÍLSON de Oliveira Araùjo
A vederlo palla al piede puntare l’avversario e ridicolizzarlo con finte e controfinte degne del grandissimo Garrincha, mai qualcuno avrebbe potuto pensare che quel puro fenomeno fosse soltanto pittoresco, un bell’orpello da esibire qualche minuto ma da mettere da parte quando la partita si fa importante e servono calciatori e non giocolieri. Perché questo fu Denìlson, un giocoliere, eppure talmente fenomenale che per anni tutti gli appassionati di calcio non hanno smesso di sperare che diventasse anche un calciatore.
Una speranza vana, chiara a tutti nel Mondiale del 2002, che il funambolico brasiliano vinse da comparsa: nei piani del CT Scolari, infatti, Denìlson era l’uomo da far entrare nell’ultimo quarto d’ora, a risultato acquisito, per perdere tempo e far innervosire gli avversari con tutto il repertorio di finte di cui era in possesso. Prima di quell’estate da, comunque, campione del Mondo, c’era stata l’esplosione da giovanissimo nel San Paolo, il secondo posto al Mondiale di Francia nel 1998 ed il passaggio al Betis, in Spagna, che lo aveva blindato con la clausola-record (per l’epoca) di 120 miliardi di lire. Lì si erano accorti che il giocatore era in effetti tecnicamente tra i migliori al mondo, ma davvero poco incisivo e incapace di portare la squadra oltre la propria mediocrità. Dei 12 (!) anni di contratto firmati con il club di Siviglia, Denìlson ne ha onorati 7, giocando più di 200 gare ma segnando la miseria di 13 reti: nel mezzo, appunto, la stagione di gloria 2001-02, con il piazzamento UEFA raggiunto e la chiamata di Scolari per il Mondiale. Nel 2005 fu infine ceduto in Francia al modesto Bordeaux, che con il suo acquisto migliorò sensibilmente passando dal 15° posto dell’anno precedente al 2° del 2005-06. Ma mentre le sue giocate di alta classe – seppure intervallate da momenti di assenza totale dal gioco – esaltarono il poco pretenzioso pubblico francese, non ebbero altrettanto effetto sul CT Parreira, che non lo convocò per il Mondiale del 2006. A trent’anni il precoce declino: un esperienza mediocre in Arabia Saudita, un altra da dimenticare in America, dove mostra una condizione fisica pietosa, per poi essere comparsa al Palmeiras. Ritorna protagonista nell’Itumbiara, ma sono appena tre mesi e si parla poi del terzo livello del calcio brasiliano, roba da dilettanti o quasi. Si può fare di peggio? Certamente, infatti la squadra successiva che si avvale delle sue prestazioni è addirittura lo Xi măng Hải Phòng, militante nel campionato vietnamita. Denìlson ha appena 31 anni, eppure sembra già un ex-giocatore: il contratto con gli asiatici è “a gettone”, basato sulle presenze, e lui gioca solo una gara, segna una rete ed esce per infortunio dopo mezz’ora. La sua esperienza in Vietnam finisce lì, mentre con i greci del Kavala, con cui firma un biennale nel gennaio del 2010, va anche peggio: rescinde il contratto a metà aprile senza aver giocato nemmeno un minuto, quindi annuncia il ritiro, che pone fine alla carriera di un giocatore che avrebbe potuto essere un Dio del calcio ma che invece ha finito per specchiarsi nelle sue enormi e spesso inutili qualità tecniche, dando al mondo del pallone molto meno di quello che avrebbe potuto.
#01 – ADRIANO Leite Ribeiro
Il mondo si accorge di Adriano Leite Ribeiro una sera d’estate nel 2001. Si gioca l’amichevole tra Inter e Real Madrid, e nei nerazzurri ha fatto il suo ingresso questo 18enne centravanti brasiliano acquistato dal Flamengo, dove si è fatto conoscere pur mostrando un talento ancora tutto da sgrezzare. Il club di Massimo Moratti se ne accorge, e dopo sei mesi lo piazza in prestito alla pericolante Fiorentina, dove nel grigiore di una squadra destinata alla Serie B pare l’unico a crederci. Sovente tenta di fare tutto da solo, scartando le difese avversarie schierate e cercando la conclusione, e a volte ci riesce anche: i suoi 6 gol in 15 gare non bastano a salvare i Viola, ma riescono a conquistare la fiducia del Parma, che lo richiede all’Inter la stagione successiva in prestito. In coppia con Adrian Mutu, Adriano gioca uno splendido campionato in giallo-blu, e nella seconda stagione si conferma bomber completo e dalla potenza fisica devastante. L’Inter è in crisi, lo vuole riportare alla base a metà campionato, e per farlo corrisponde al Parma una bella cifra. E’ comunque una scelta azzeccata, Adriano diventa “l’Imperatore” e segna moltissimo, diventando anche un punto fermo della Nazionale: i tifosi interisti vanno in delirio per quel concentrato di muscoli e potenza dotato però anche di velocità e tecnica. Un’evoluzione di Ronaldo, dicono i più speranzosi non sbagliando poi di molto: perché Adriano è veramente, per quasi due anni, il miglior centravanti al mondo. Poi qualcosa si rompe dentro di lui, e solo dopo anni e anni si capirà cosa: nel 2004, appena rientrato all’Inter, il brasiliano ha subito un lutto importante, la morte del padre a cui era legatissimo. La depressione è arrivata quasi subito, Adriano ci ha lottato ma ha finito per arrendersi nel peggiore dei modi, trovando rifugio nell’alcol. Ciò non gli ha impedito immediatamente di essere un grande giocatore, e infatti nel 2005 e nel 2006 si può dire che fu al suo picco, ma a lungo andare il bere ha minato fisico e animo di un ragazzo sicuramente fragile, cresciuto tra l’altro in una delle peggiori “favelas” di tutta Rio de Janeiro.
L’Inter, resasi conto della cosa, fa di tutto per preservare il suo patrimonio: inventa infortuni che non esistono per giustificare le sue assenze agli allenamenti, inventa condizioni fisiche da ritrovare per spiegare a stampa e tifosi le numerose presenze in panchina, lo manda persino in Brasile in prestito per tentare di ritrovarsi. Niente da fare. Nel 2009 sembra alla fine aver sconfitto i propri demoni, ritrova gol e continuità con la maglia dell’adorato Flamengo, si propone per un rientro in Europa: ci crede la Roma, città che doveva essere nel suo destino visto il suo soprannome, ma una volta tornato in Italia Adriano capisce che i demoni non puoi sconfiggerli, al massimo annegarli per un po. Magari con l’alcol. Ancora.
A Roma rimane pochi mesi, e sono gli ultimi in cui lo si può definire ancora un calciatore: cessa infatti di esserlo quando lascia la Capitale, ad appena 28 anni. Da allora è un girovagare per il Brasile, strappando ingaggi che non vengono onorati e facendo promesse che puntualmente vengono disattese. Ci provano il Corinthians, ancora il Flamengo. Sembra riuscirci, infine, il piccolo Atletico Paranense, a cui non pare vero di avere la possibilità di rigenerare quello che era, non molto tempo prima, un vero fenomeno. Adriano non si presenta al raduno del club, viene perdonato e messo sotto contratto ugualmente: torna a giocare dopo quasi due anni, ritrova anche il gol in Coppa Libertadores. Ma è un fuoco di paglia purtroppo. L’ennesimo. Nei due giorni successivi al ritorno al gol si rende irreperibile, salta gli allenamenti, ma viene fotografato in un locale la notte successiva l’eliminazione della squadra, che non può fare altro che rescindergli il contratto stipulato appena tre mesi prima. E’ l’ultima volta che si sente parlare di Adriano Leite Ribeiro, che esplose con un bagliore accecante una notte di 13 anni fa e che adesso, ad appena 32 anni, è a tutti gli effetti un ex-calciatore, avendo giocato l’ultima stagione regolare addirittura quattro anni fa. Quest’estate sono venute fuori sue dichiarazioni d’intento e la ricerca di un ingaggio, magari in Italia, dove è stato “Imperatore”. Purtroppo, però, nessuno sembra più credere alle promesse di un ragazzo con problemi così evidenti. Probabilmente, prima di tentare di tornare un calciatore, Adriano dovrebbe tentare di tornare un uomo. Per il bene suo e di tutti quei tifosi che lo hanno amato e che hanno potuto ammirarne l’immenso, seppur brevissimo, splendore.
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