Calcio
GRANDI SQUADRE: La storia del Grande Torino (prima parte) – 19 apr
“Russ cume ‘l sang
fort cume ‘l Barbera
veuj ricurdete adess, me grand Turin.
En cui ani ‘d sagrin
unica e sula la tua blessa jera.
Rosso come il sangue
forte come il Barbera
voglio ricordarti adesso, mio grande Torino.
In quegli anni di patimenti
unica e sola la tua bellezza era.”
(Giovanni Arpino, Me grand Turin)
Numerose sono le squadre che hanno scritto la storia del calcio italiano. La prima squadra leggendaria fu il Genoa degli inglesi, che organizzò e vinse i primi campionati e che ebbe il merito di portare il football in Italia, poi vennero Pro Vercelli e Bologna, la provincia al potere, quindi la Juventus degli anni ’30. Esempi recenti sono stati il Milan di Arrigo Sacchi, l’Inter dei record di Trapattoni e quella di Mourinho e del ‘Triplete‘, che ricordò in grandezza quella degli anni ’60 di Helenio Herrera, e recentemente ancora la Juventus che con Allegri si appresta a vincere lo Scudetto dopo i tre consecutivi di Antonio Conte.
Eppure nessuno è mai stato grande come il ‘Grande Torino’, uno squadrone che negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale conquistò tutto il Paese, arrivando ad esserne in pratica la Nazionale e che ottenne risultati sportivi eccezionali: nel giro di sette anni i granata conquistarono cinque Scudetti, mantenendo imbattuto il proprio campo – il mitico “Filadelfia” – per ben sei stagioni; arrivarono a fornire all’Italia dieci giocatori su undici; nel corso dei cinque campionati vinti realizzarono 483 gol, subendone appena 165. Con la Coppa del Mondo che sarebbe ripresa nel 1950 l’Italia, campione in carica dal 1938 quando il torneo era stato interrotto a causa della guerra, guardava oltreoceano con fiducia. Tutto invece si fermò il pomeriggio del 4 maggio del 1949, quando un terribile incidente aereo mandò in frantumi quello che ormai per ogni appassionato di calcio in Italia era un sogno, l’utopia di una squadra imbattibile e spettacolare, avanti almeno di vent’anni rispetto ai tempi. Una compagine che aveva rappresentanto per tantissimi il segno del riscatto di un intero Paese dopo le ferite e le umiliazioni che la guerra aveva portato con se.
“Quel Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di vivere, di sentirsi di nuovo cittadini di una città viva e concorde che ci prendeva alla gola quando passavamo davanti alle macerie di piazza San Carlo, di fronte agli edifici sventrati.” (Giorgio Bocca)
Tutto era iniziato nell’estate del 1939, quando l’imprenditore Ferruccio Novo era diventato il quindicesimo presidente di uno dei club più antichi e gloriosi d’Italia. Nonostante il blasone, però, il Torino era sempre stato fino ad allora una realtà minore del panorama calcistico italiano: il poderoso intervento economico e innovatore del Conte Marone Cinzano, che poco più di un decennio prima aveva investito pesantemente sulla squadra, acquistando numerosi campioni e costruendo uno stadio moderno come il “Filadelfia”, avevano portato appena due Scudetti, il primo dei quali revocato per dubbi motivi e il secondo che aveva segnato un epoca grazie al leggendario trio d’attacco Baloncieri-Rossetti-Libonatti. Era accaduto nel 1928, ma quello che sembrava l’inizio di un dominio si era ben presto spento nel nulla anche per “colpa” del Bologna, che in quegli anni era “lo squadrone che tremare il mondo fa”. In un decennio i granata erano arrivati per due volte secondi proprio dietro all’imbattibile squadrone di Weisz, e in città serpeggiava un certo malcontento anche perché mentre il Torino era rimasto a secco di vittorie il Bologna si era spartito i titoli nazionali con la Juventus degli Agnelli, di Combi, Rosetta, Luisito Monti e Renato Cesarini. I bianconeri, lo diceva il palmarès, erano già allora e senza dubbio i “padroni” della città, calcisticamente parlando, e questo era qualcosa che generava davvero sofferenza in chi aveva il cuore granata.
Ferruccio Novo era uno di questi. Un tifoso prima di tutto. Da ragazzo si era innamorato del football e del Toro ai tempi del Collegio, e aveva giocato a calcio come difensore arrivando però solo fino alla squadra riserve dei granata: “ero una schiappa”, ricordava spesso sorridendo. Si era poi dato all’imprenditoria, gestendo con il fratello Mario l’attività di famiglia, una fabbrica di accessori in cuoio per l’industria. Nel Torino era entrato prima come socio finanziatore, poi come consigliere. Nell’estate del 1939, dopo l’ennesima delusione (secondo posto dietro al Bologna) il presidente Cuniberti lasciò l’incarico. Il suo ultimo atto fu la nomina del suo successore, che fu appunto un entusiasta Novo. Una scelta che si sarebbe rivelata felice e che avrebbe fatto la storia del calcio italiano. Novo infatti si gettò a capofitto nella nuova avventura: persona abile ed esperto di calcio, sapeva però anche quando era il caso di seguire i consigli di chi era più esperto di lui. Fu per questo motivo che si rivolse al Commissario Tecnico dell’Italia Vittorio Pozzo, torinese e torinista, chiedendo consiglio sul da farsi: Pozzo, lo spirito sempre diviso tra conservatorismo e innovazione, seguì quest’ultima sua inclinazione e gli consigliò di ispirarsi alle squadre inglesi che stavano creando quelle figure specialistiche che oggi ci appaiono come normali ma che all’epoca non esistevano. Il Torino fu uno dei primi club italiani a votarsi totalmente al ‘Sistema’, abbandonando il vecchio ‘Metodo’ basato sul contropiede per uno stile di gioco più arioso e portato all’assalto della difesa avversaria, e Novo si circondò di diversi consiglieri: l’amico Roberto Copernico, esperto di calcio, e poi gli ex-campioni d’Italia del 1928-29 Antonio Janni e Mario Sperone, l’Amministratore Delegato Agnisetta, l’allenatore delle giovanili Leslie Lievesley, inglese. L’allenatore è Angelo Mattea, vecchia gloria del Casale e vice di Pozzo alle Olimpiadi del 1936, mentre una già dall’anno precedente collabora con la società dall’anno precedente l’ungherese di origine ebrea Ernő Egri Erbstein, che a Lucca ha fatto miracoli ma che ha poi dovuto lasciare per via delle famigerate ‘leggi razziali’ appena emesse da Benito Mussolini. Erbstein collabora nell’ombra, prima in città e poi dall’Ungheria, dove riesce a fuggire con l’aiuto della società granata che inventa per lui un lavoro su misura come rappresentante.
Sul mercato il colpo grosso, anche se all’epoca passa sotto silenzio, è l’acquisto di Franco Ossola, un giovane di 18 anni che gioca in Serie C nel Varese. È una felice intuizione, perché questo attaccante dalla classe sconfinata e dai dribbling micidiali si rivela il primo pezzo di quello che sarà il “Grande Torino”: è talmente forte che il suo allenatore, l’ex-granata Janni, non lo fa giocare per paura che qualcuno glielo porti via. Quando si rende conto che però ciò accadrà comunque decide di fare un favore al suo club del cuore e lo segnala a Novo, che ne conclude l’acquisto a stretto giro di posta. Il Torino 1939-1940, il primo del nuovo corso dirigenziale, va però a corrente alternata e conclude con un deludente sesto posto finale che vale l’allontanamento del tecnico Mattea. La stagione successiva però la squadra continua a cercare il giusto equilibrio: guidata dall’italo-austriaco Tony Cargnelli arriva alle semifinali della Coppa Italia, dove cede alla Roma, ma in campionato rimane ben lontana dalle prime e conclude al settimo posto. Il terzo anno della gestione-Novo si apre con una rivoluzione: in estate arrivano diversi giovani promettenti, mentre salutano alcuni membri della formazione titolare ormai logori. Il mercato porta in granata il portiere Bodoira, i difensori Ellena e Rigamonti, il centrocampista Santià e gli attaccanti Romeo Menti, Pietro Ferraris, Guglielmo Gabetto e Felice Borel: gli ultimi due, come Bodoira, provengono dai rivali cittadini della Juventus, e vengono accolti con un po’ di freddezza dai tifosi, così come non entusiasma il ritorno in panchina (vi aveva seduto anche due anni prima come Direttore Tecnico) dell’ungherese Andreas Kuttik. Eppure, anche se lo Scudetto non arriva, la stagione 1941-1942 si rivela quella dell’effettiva genesi del ‘Grande Torino’: i granata, finalmente assorbito il ‘Sistema’ e integrati i giovani, sciorina un buon calcio e si piazza al secondo posto cedendo solo nel finale il titolo alla Roma di Amadei. Spicca un 9 a 1 rifilato all’Atalanta, spiccano soprattutto i giovani dell’attacco granata: Gabetto segna 16 reti, Menti ne mette a referto 15, Ossola 7 in appena 12 gare. La squadra è forte, ma a centrocampo manca qualcosa, il ‘motore’ che faccia girare al meglio l’intero meccanismo. Novo, su consiglio dell’esule Erbstein, lo individua in due giovani interni, perni della manovra del Venezia che è giunto sorprendentemente terzo proprio dietro ai granata: i loro nomi sono Ezio Loik e Valentino Mazzola, e giovanissimi hanno portato i lagunari a vincere la Coppa Italia l’anno precedente. Ferruccio Novo li acquista in blocco, pagando un milione e duecentomila lire, una cifra impressionante per l’epoca: Loik ha sette polmoni ma piedi da artista ed un grandissimo intuito, tanto che a Venezia lo chiamano “l’uomo dai gol impossibili”. Valentino Mazzola invece è un giocatore completo: potente, raffinato tecnicamente, carismatico e tatticamente impressionante, sempre capace di essere nel posto giusto al momento giusto. Da ragazzo ha scelto di giocare in Serie C e lavorare piuttosto che andare direttamente in Serie A per paura di impigrirsi e montarsi la testa, e il primo provino al Venezia lo ha fatto a piedi nudi per non sciupare l’unico paio di scarpe da calcio che possiede. Quando scende a Torino come un nuovo giocatore granata forse non sa che quel giorno si sta scrivendo la storia del calcio italiano.
“Ancora adesso se debbo pensare al calciatore più utile ad una squadra, a quello da ingaggiare assolutamente, non penso a Pelé, a Di Stéfano, a Cruijff, a Platini, a Maradona: o meglio, penso anche a loro, ma dopo avere pensato a Mazzola.” (Giampiero Boniperti)
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