Calcio
I PROTAGONISTI DEL MONDIALE (9^ puntata): Messico 1970
Prosegue la “Storia breve dei Mondiali”: quest’oggi l’edizione del 1970, che assegna definitivamente la Coppa Rimet e che consegna alla storia quella che verrà ribattezzata “la partita del secolo”.
Le precedenti puntate:
– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938
– BRASILE 1950
– SVIZZERA 1954
– SVEZIA 1958
– CILE 1962
– INGHILTERRA 1966
#IL MONDIALE
Il torneo viene assegnato al Messico in quanto, essendo il turno del Sudamerica, il Brasile fa pressioni alla FIFA affinché non vada all’Argentina, cosa già successa per i Mondiali del 1962 in Cile. Ai nastri di partenza si presentano tutte le Nazionali già campioni in passato, fatto mai accaduto prima eccezion fatta per il 1950 e il 1954, quando però i paesi vincitori della Coppa Rimet erano appena 2. Stavolta sono 5, di cui 3 (Brasile, Italia e Uruguay) vantano due vittorie: vincesse uno di questi paesi, per regolamento la Coppa Rimet sarebbe per sempre assegnata.
E così accade: Brasile, Italia e Uruguay arrivano fino alle semifinali, e a conquistare la Coppa sono i verde-oro, sconfiggendo in finale un Italia che comunque ben si comporta, riuscendo per la prima volta dal dopoguerra a superare il primo turno. Per quanto riguarda i campioni, se nel 1966 l’equilibrio tra anziani campioni ormai decaduti e giovani virgulti troppo acerbi era risultato sbagliato, stavolta tutto va come deve andare: è probabilmente il Brasile più forte di sempre quello che trionfa, un complesso tecnicamente esaltante e caratterialmente maturo.
Il Mondiale di Messico del 1970 è anche l’edizione che vede per la prima volta l’utilizzo dei cartellini (gialli per l’ammonizione, rossi per l’espulsione) in quanto prima esisteva solamente l’espulsione. Altra novità sono le sostituzioni, permesse per la prima volta in numero di due per partita: una novità che darà il via, per l’Italia, alla famosissima “staffetta” tra Mazzola e Rivera e che spaccherà letteralmente il paese in due.
#GLI EROI
Il Brasile campione, come detto, è un complesso fenomenale: davanti ad una linea difensiva a 4 non eccezionale, agisce Clodoaldo, che copre le spalle a 5 “numeri 10”: Jairzinho, Tostao, Rivelino, Gerson e Pelé, a 29 anni al suo massimo di sempre. I verde-oro vanno in difficoltà se attaccati, ma vantano un reparto offensivo così forte da costringere qualunque avversario a difendersi, ed è così che alla fine avranno la meglio.
L’Italia finalista invece risulta molto ordinata tatticamente ed esaltata da diverse individualità tra le più forti di sempre: il CT Valcareggi l’ha plasmata su due blocchi, quello dell’Inter Campione d’Europa (Burgnich, Facchetti, Bertini, Mazzola, Boninsegna) e quello del Cagliari Campione d’Italia (Albertosi, Cera, Domenghini e lo straordinario “Rombo di Tuono” Gigi Riva) più qualche campione sparso come Giancarlo De Sisti e soprattutto Gianni Rivera, Pallone d’Oro nel 1969.
Nella Germania semifinalista che vende cara la pelle all’Italia, impressiona Beckenbauer, sempre più leader. Al suo fianco Schnellinger, in porta Sepp Maier, a formare una delle difese più forti del mondo. In attacco la classe non manca (Seeler, Overath) mentre ai gol ci pensa Gerd Muller, giocatore tutt’altro che appariscente tecnicamente ma dall’impressionante fiuto per il gol: in carriera segnerà oltre 500 reti, in Nazionale 68 in appena 62 gare. In Messico è capocannoniere, con 10 reti in 6 incontri disputati.
L’Uruguay 4° non si distingue per il suo gioco spettacolare, tutt’altro: segna appena 4 reti in 6 gare, sufficienti però per giungere fino alle semifinali. Fuoriclasse se ne trovano pochi: il portiere Mazurkiewicz, i difensori Mujica e Ubinas, le mezzepunte Esparrago e Pedro Rocha, talento che però si infortuna subito. A centrocampo si trova anche Julio Montero, padre del futuro difensore della Nazionale Paolo.
Un’altra ottima squadra è il Perù rivelazione, che sfoggia il difensore Chumpitaz e il fantasioso Cubillas, universalmente riconosciuti come due tra i migliori interpreti della storia del calcio sudamericano. L’URSS vanta ancora tra i pali l’ottimo Yashin, quarantenne, e ai gol pensa Anatoly Bishovets.
I Campioni del Mondo in carica dell’Inghilterra schierano grosso modo la stessa formazione dell’edizione precedente, e finiscono per essere eliminati ai quarti di finale dalla Germania, che vendica la sconfitta di Wembley: contro i tedeschi mancano il portiere Banks (sostituito da Peter Bonetti, responsabile dei gol subiti), il difensore Bobby Moore (incredibilmente espulso dal paese accusato di un furto mai commesso in un negozio) e soprattutto Bobby Charlton, che Ramsey toglie dal campo con l’intenzione di risparmiarlo per le gare a venire convinto di avere la vittoria in pugno.
I padroni di casa del Messico sono un complesso piuttosto modesto che però riesce a superare il primo turno grazie anche a sorteggio e arbitraggi abbastanza favorevoli.
#L’EPISODIO
Il 17 giugno 1970 è una data che tutto il mondo calcistico ricorderà per sempre: è in questo giorno, infatti, che si svolge allo stadio “Azteca” di Città del Messico quella che passerà alla storia come “la partita del secolo”, e cioè Italia-Germania 4-3. Chi vince andrà in finale, appuntamento che l’Italia manca addirittura dal 1938 mentre i tedeschi dal 1954: nel turno precedente gli azzurri hanno avuto ragione agevolmente dei padroni di casa del Messico, mentre la Germania ha faticato le proverbiali sette camice per liberarsi dell’Inghilterra, rimontando uno svantaggio di due reti e vincendo ai supplementari.
Valcareggi conferma i suoi uomini: Albertosi in porta, Burgnich, Rosato, Cera e Facchetti in difesa, Bertini, De Sisti, Mazzola e Domenghini a centrocampo e in attacco il duo Riva-Boninsegna.
L’allenatore tedesco, Jupp Derwall, ha invece operato tre cambi rispetto alla squadra vittoriosa contro gli inglesi: Maier in porta, Vogts, Patzke, Schultz e Schnellinger in difesa, Beckenbauer, Overath, Grabowski e Lohr a centrocampo e in attacco Seeler in supporto di Gerd Muller.
La partita non è niente di spettacolare nei tempi regolamentari: passata in vantaggio grazie ad un gran sinistro di Boninsegna, l’Italia lascia l’inerzia della gara ai tedeschi, troppo stanchi per creare seri grattacapi alla porta azzurra. Quando ci riescono, favoriti dall’atteggiamento rinunciatario degli italiani, è Albertosi a salire in cattedra: il portiere è nel momento migliore della carriera, para tutto quel che c’è da parare e risulta il migliore in campo. Sembra finita, quando in pieno recupero, dopo diversi mischioni in area italiana, Grabowski fugge sulla sinistra e fionda il pallone in area: da lì sbuca Schnellinger, che solo davanti al portiere non può sbagliare. Pareggio.
Il difensore tedesco, che gioca nel Milan, confesserà poi che stava semplicemente dirigendosi verso il tunnel degli spogliatoi, situato dietro la porta italiana, convinto che la gara fosse finita.
Invece si va ai supplementari, e qui la partita smette di essere una partita qualsiasi e diventa leggenda. Al 4° minuto del primo supplementare Muller sfrutta un indecisione del neo-entrato Poletti in seguito a un colpo di testa di Seeler e beffa Albertosi. 2 a 1 per la Germania quindi, ma non è finita. Passano altri 4 minuti, siamo al 98° quindi: punizione sulla trequarti per l’Italia, Rivera scodella in area tedesca una palla innocua, Held però respinge male e la palla carambola sui piedi di Burgnich: anche lui, come Schnellinger, non è avvezzo al gol. Anche lui, come il collega tedesco, non può però sbagliare una così facile occasione. Tiro, gol. 2 a 2.
I tedeschi sono esausti adesso, sia fisicamente (seconda gara ai supplementari in tre giorni) che mentalmente: Libuda si intestardisce in un dribbling, gli azzurri recuperano la palla che finisce a Rivera. Sontuoso lancio sulla fascia sinistra per Domenghini, che mette a sua volta nel mezzo per Riva appena fuori area. “Rombo di Tuono” fa tutto di mancino, controlla il pallone, si libera di Schnellinger e con un preciso tiro spara all’angolino sinistro di Maier. Un tiro imparabile, un gol stupendo. 3 a 2. Un attimo dopo finisce il primo tempo supplementare. Finita qui? Neanche per idea.
110° minuto: Albertosi si è appena superato spedendo in angolo un colpo di testa di Seeler. I tedeschi battono, è ancora Seeler (che eppure è alto appena 170 centimetri) a colpire di testa, la palla finisce nell’area piccola e viene toccata dal solito rapace Muller infilandosi sul palo alla sinistra di Albertosi, che impreca platealmente contro Rivera. Il milanista era infatti deputato a coprire quella zona della porta, ma battezzando la palla fuori non è intervenuto. Un gol simile avrebbe steso chiunque, ma evidentemente scatta qualcosa dentro il Pallone d’Oro italiano: gli azzurri battono da centrocampo, fraseggiano un attimo ormai esausti, poi il grande Facchetti lancia lungo sull’ala sinistra, dove scatta l’inesauribile Boninsegna inseguito da Vogts. “Bonimba” se ne libera, alza un attimo lo sguardo e vede l’area tedesca gremita, quindi serve il pallone rasoterra all’indietro appena fuori area. Dove arriva chi? Naturalmente proprio lui, Gianni Rivera: oggi lo chiameremmo un “rigore in movimento”, in realtà non è così semplice. Ma i campioni fanno sembrare le cose difficili molto facili. Piatto di Rivera, Maier spiazzato finisce a sinistra, il pallone alla sua destra.
Italia – Germania = 4 – 3. Rivera in un minuto muore (sportivamente) e risorge, portando meritatamente l’Italia in finale: nei dieci minuti rimanenti, a questo punto sorprendentemente, non succede più niente.
Tutt’oggi è possibile ammirare una targa commemorativa di quella gara, per molti “la partita del secolo” e che causò festeggiamenti improvvisati a notte inoltrata in Italia e diversi casi curiosi: si dice che diversi detenuti evasero da un carcere brasiliano con le guardie troppo prese dalla gara per accorgersene, e documentato fu il caso di un commerciante italiano a Montevideo che cadde stroncato da infarto.
In finale l’Italia non si confermò, venendo asfaltata da un Brasile troppo più forte e il cui compito fu reso anche più agevole dalla stanchezza azzurra accumulata in questa gara e dalle scelte di Valcareggi, che rinunciò alla consueta “staffetta” Mazzola-Rivera (che normalmente avveniva nell’intervallo) lasciando a quest’ultimo appena gli ultimi 6 minuti di gara.
#IL PROTAGONISTA
Nel mondo del calcio sovente assistiamo al dibattito su chi sia stato il miglior calciatore della storia, e spesso la lotta si riduce a due nomi, quello di Maradona e quello di Pelé. Per chi lo ha visto giocare però la lotta si riduce ad un solo nome, ed è quello di Edson Arantes do Nascimiento.
Pelé, appunto, il giocatore che più di chiunque altro simboleggia il calcio ed il ruolo di campione totale.
Costretto dalla povertà a giocare in infanzia con un pompelmo al posto di un pallone, Pelé crebbe spaventosamente in pochissimo tempo, tanto che a 15 anni fu introdotto nelle giovanili del Santos e appena un anno dopo già era titolare e capocannoniere del campionato.
Nemmeno maggiorenne fu il centravanti del Brasile che, nel 1958, conquistò finalmente il suo primo Mondiale di calcio dopo averlo a lungo inseguito.
Pelé ha giocato per quasi l’intera carriera nel Santos ed ha realizzato 1281 reti in 1363 partite. Ha vinto tre Mondiali ed è stato dichiarato nel 1962 “patrimonio nazionale” dal Governo brasiliano per evitare ogni rischio di possibile cessione all’estero. Ha segnato sei “cinquine”, una trentina di “quaterne” e novantadue “triplette”, inoltre in un incontro (avversario il Botafogo) segnò ben otto reti nell’11 a 0 con cui si concluse l’incontro.
Pelé, “O Rei”, è stato un personaggio che è andato ben al di là del calcio: durante una tournee amichevole in Colombia, ad esempio, l’arbitro lo espulse ed il pubblico andò così fuori di testa che lo costrinse a rientrare in campo. Fazioni in guerra per il dominio della Nigeria stabilirono una tregua per andare a vederlo giocare. Volò in America, dove fu l’icona del primo tentativo di calcio made in USA, che con il suo ritiro naufragò ovviamente in brevissimo tempo. Insomma, Pelé non è stato un calciatore, bensì il calcio, l’essenza stessa di questo sport: corretto, leale, forte in campo nazionale ed internazionale, carismatico, un leader, un finalizzatore senza eguali ed un eccezionale assist-man. Potente, velocissimo, acrobatico, abile in ogni fondamentale al punto da rendere apparentemente facile quello che per molti era impossibile. La perla nera, il Re del calcio.
Emblematiche le parole dell’ambasciatore brasiliano presso l’ONU nel momento del ritiro: “Pelé ha giocato a calcio per ventidue anni e durante quel periodo ha promosso l’amicizia e la fraternità mondiali più di qualunque ambasciatore.”
Dei tre Mondiali che ha vinto, quello del 1970 è sicuramente il più suo: nel 1958 infatti si era ritrovato titolare quasi per caso, giocando benissimo e segnando gol memorabili, certo, ma in un torneo fin troppo facile per i suoi. Nel 1962 diede spettacolo nell’unica gara disputata, nella seconda si infortunò e dovette vivere il torneo da spettatore: lo sostituirono Garrincha per carisma e classe e Amarildo nella posizione, il Brasile vinse ancora ma appunto Pelé fu una comparsa.
Nel 1970 non doveva esserci. Pur avendo appena trent’anni, sarebbe dovuto rimanere a casa: gli infortuni patiti nel ’62 in Cile e nel ’66 in Inghilterra lo avevano portato a prendere la decisione di non giocare più i Mondiali, visto che gli avversari frustrati finivano per bersagliare le sue povere caviglie. Eppure alla fine fece parte della spedizione, nel 1969, dopo che il CT Joao Saldanha era stato addirittura esonerato a furor di popolo per aver detto che in fondo di Pelé se ne poteva anche fare a meno.
Non aveva tutti i torti, Saldanha: la squadra era fortissima, i vecchi campioni ormai logori si erano ritirati, i giovani virgulti erano cresciuti. Il nuovo CT Zagalo, ex-compagno di Pelé, aveva modellato una squadra con ben cinque “numeri 10” in attacco, sorretti dal giovane e dinamico Clodoaldo, a volte ingenuo ma instancabile motorino di centrocampo. Quel Brasile dietro era mediocre, ma davanti incantava: Pelé segnò 4 gol in quell’edizione del Mondiale, uno dei quali anticipando Burgnich di testa in una delle azioni più note nella storia del calcio, volando letteralmente in cielo.
Il 1970 fu senza dubbio il Mondiale di Pelé, tanto che il “Sunday Times” il giorno successivo la finale titolò: “Come si scrive Pelé? D-I-O!”
I maestri inglesi, che di football un po se ne sono sempre intesi, lo avevano capito.
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