Calcio
Il paese del fascismo che non c’è. Tranne quando ce ne accorgiamo
Non più di sei mesi fa, un brillante articolo di Alfredo De Vuono (che vi invito a leggere) analizzava in maniera quasi drammatica l’escalation del razzismo in Italia, dandone una visione ben più interessante: la sempre maggiore mediaticità del gioco del calcio, con toni accesissimi, al limite del rovente, fa sì che oggi chiunque senta propria la possibilità di arrogarsi il diritto di sparare a zero su ciò che lo circonda.
Così, la bagarre social discute sulla necessità di fare tabula rasa degli organi FIGC, da Tavecchio ad Uva passando per Ventura e perché no, mettendoci in mezzo anche un po’ di becera politica che non guasta mai, e il popolo del web fa proprio il dovere morale di trasportare quelle che vent’anni fa avremmo derubricato a chiacchiere da bar su portali di dominio pubblico. Bene, direte: oggi anche chi è sempre stato ai margini della società, chi non ha mai avuto una platea ad ascoltarlo, può avere il suo spazio ove pontificare il suo pensiero. Tutto molto bello, o quasi.
Il problema reale, infatti, si presenta quando quel labile confine che separa l’ars oratoria dalla pura e semplice mancanza di rispetto viene varcato. Purtroppo, specie quando si parla di calcio, ciò accade più e più volte, e azionare il freno a mano diviene sempre più difficile. E se il fatato mondo di Facebook, autentico Fight Club del nuovo millennio nel quale non esistono regole, se non censure imposte dai computer al digitare di taluni termini, finisce per sbordare nella quotidianità in maniera prorompente, finiamo per indignarci. A trasportarci, quel fittizio potere che ci fa sentire primus inter pares, al di sopra di tutto e tutti. E che se non ha un adeguato autocontrollo, è molto pericoloso.
Così, un ragazzino di 11 anni armeggiato di un cellulare con connessione dati può entrare su Instagram, andare sul profilo del difensore romanista Juan Jesus e sentenziare che è un “brutto negro mongoloide”. Il motivo? Non essere stato sufficientemente brillante nella marcatura sul dirimpettaio Perisic, nella gara tra Roma ed Inter giocata ad inizio campionato. E via con l’indignazione, con le urla di vergogna, con le accuse ai genitori di non essere capaci di controllare, di educare. Ma basta guardarsi in giro per capire che quanti dovrebbero avere il ruolo di tutore, a volte, sono i primi che avrebbero bisogno di qualcuno che li tenga a bada. E se un minorenne può, pur a fatica, avere tutte le attenuanti del caso, certi adulti dovrebbero farsi un esame di coscienza prima di pigiare sul tasto Pubblica.
Però, come ha fatto giustamente notare il suddetto Alfredo nel suo articolo, non si archivi il tutto a semplice goliardia quando certi limiti vengono oltrepassati. Nell’era del biscardismo – “non parlate più di tre o quattro alla volta”, recitava l’istrionico conduttore molisano da poco deceduto – all’ennesima potenza, attuato non più da una cerchia ristretta ma da una pluralità indistinta, alcuni messaggi divengono mainstream in pochi secondi, e a quel punto sottrarsi dalla gogna mediatica è impossibile.
Non possiamo non prendere in esame il recentissimo e deplorevole episodio occorso a Marzabotto non più di tre giorni fa. Quanto accaduto nei minuti di recupero nella gara tra i padroni di casa e gli ospiti del Futa 65 ha alzato un inevitabile polverone sul mondo calcistico dell’Appennino bolognese e non solo, ed è l’esempio perfetto di quanto drammatica possa essere, alle volte, la capacità di fermarsi a riflettere. Ma andiamo con ordine.
L’ignobile esultanza del venticinquenne Eugenio Maria Luppi, attaccante del Futa 65, è entrata con prepotenza negli schermi, grandi o piccoli che siano, di tutti gli italiani. E non è tanto il saluto romano o una maglietta riconducibile alla Repubblica Sociale Italiana, inequivocabili segnali di un ritorno al fascismo da condannare, evitare e non sottovalutare, a doverci mettere particolarmente sull’attenti, ma la premeditata profanazione di un macabro eccidio risalente a 70 anni fa, che non ha risparmiato donne, bambini ed abiti talari, indistintamente, e del quale il giocatore si è reso protagonista di sua spontanea volontà. Di un episodio del quale difficilmente saremmo venuti a conoscenza se non fosse accaduto in tale luogo e, soprattutto, se qualcuno non avesse casualmente effettuato le riprese tramite un cellulare, permettendoci di notare un episodio figlio di un fascismo che non c’è, tranne quando ce ne accorgiamo. Ma avrei potuto sostituire il termine “fascismo” indifferentemente con “intolleranza” o “razzismo”, perché hanno come matrice la stessa poca accortezza della quale ci macchiamo troppo facilmente.
Un fascismo che non c’è tranne quando ce ne accorgiamo, dicevamo. Perché la pagina Facebook del Futa 65 ha vissuto nella sua cerchia composta da circa 150 seguaci, più o meno attivi, fino a circa le tredici di lunedì. Classico commento post-partita, celebrativo di un’epica rimonta sulla capolista portata a termine nei minuti finali grazie alla decisiva rete di Luppi, senza cenno alcuno all’accaduto. Fino a quando qualcuno pubblica online il video e questo inizia pian piano a diffondersi, portando ai primi inevitabili commenti di biasimo sullo stesso breve articolo, al quale un dirigente risponde con un “prenderemo i nostri provvedimenti” che sa quasi di contentino alle 5-6 persone che lamentano lo sconsiderato gesto del suo attaccante.
Accade, però, che il filmato diventi virale in men che non si dica. Tutte le maggiori testate italiane si fiondano su di esso e sul piccolo Futa, che spiazzato da tante attenzioni cancella la narrazione del dopopartita e si lancia in messaggi testuali di scuse della società prima e del calciatore poi (il quale però, nella giornata di ieri, rilascia una dichiarazione a La Repubblica sottolineando di aver semplicemente salutato il padre e la ragazza, ritrattando di fatto le scuse. D’altronde, se c’è chi fa i cuoricini, si può anche salutare a braccio teso gli affetti più cari), cercando di salvare il salvabile. Tutto ciò, quasi 24 ore dopo l’accaduto e solo perché una ripresa amatoriale ha letteralmente travolto il sodalizio con sede a Loiano. Vent’anni fa, se mai un video del genere fosse venuto alla luce, probabilmente tutto sarebbe finito con un comunicato della società alla stampa e la patata bollente sarebbe stata affidata alla giustizia, ordinaria e sportiva, in attesa di provvedimenti. Non oggi, però.
Eugenio Luppi decide, saggiamente, di chiudere il proprio profilo personale e di estraniarsi, almeno personalmente, da Facebook e da parte dell’inevitabile processo a suo carico. Tutta l’ira dell’antifascismo si abbatte dunque sulla pagina della società, sul proprio messaggio di scuse e su quello (finto?) affidato alla stessa dal calciatore. E rieccolo, il Fight Club al quale accennavamo poc’anzi: in mezzo a messaggi – tra i quali anche il mio, ndr – di civile indignazione, ecco ergersi le minacce testuali di morte e la trasposizione social dei “ci vediamo fuori” tipici, ahinoi, del campo da gioco. Si supera, dunque, ogni ragionevole limite di discussione, trascendendo in offese, minacce e quant’altro nemmeno il pur riprovevole gesto merita.
Apriti cielo: venuta meno l’atmosfera di tranquillità, il Futa 65 si sottrae da Facebook cancellando la pagina. E non lo fa dal confronto, ma da una altrettanto brutale aggressione perpetrata non coi fatti, ma con le parole. Meno grave, direte, ma la storia recente ci insegna che il passaggio dai social ai fatti è breve. Troppo breve. Sbaglia il giocatore, e pagherà, anzi DEVE pagarne le conseguenze, ma sbaglia altrettanto chi, dotato di una tastiera fisica o virtuale, non collega le mani al cervello.
Abbassiamo i toni, se non vogliamo divenire il paese di un pericolo, quello del sovraesporci in maniera sbagliata, che non c’è. Tranne quando ce ne accorgiamo, ed è sempre troppo tardi.
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