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Il Racing de Avellaneda e “la maledizione dei sette gatti neri” – 04 set

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“Il Racing è molto di più che vincere o perdere. O ci credi o non ci credi.”
(Diego Milito)


Sebastian Saja, portiere, 4 presenze nel Brescia nel 2003; Leonardo Migliònico, difensore uruguaiano, un decennio speso nelle retrovie del calcio italiano indossando le maglie di Piacenza, Sampdoria, Livorno e Lecce; Adriàn Centuriòn e Gabriel Hauche, attaccanti, meteore rispettivamente al Genoa la scorsa stagione e al Chievo due anni fa.
Questi i nomi dei – chi più, chi meno – mediocri giocatori che compongono l’attuale ossatura di una squadra argentina il cui nome, fuori dal proprio paese, deve dire poco a tanti: il Racing Club de Avellaneda. Deve dire poco soprattutto a chi è nato nell’ultimo mezzo secolo, che ha visto questa squadra barcamenarsi più o meno sempre nelle retrovie di un calcio come quello argentino, capace di regalare momenti di gloria – e proverbiali cadute – quasi a chiunque. A chiunque tranne che a questa squadra, una delle due di una cittadina della provincia di Buenos Aires dove nacque il grande Raimundo Orsi e che deve il suo nome ad un vecchio Presidente dell’Argentina. Avellaneda, quasi 400.000 abitanti che si dividono tra l’amore per il Racing (chiamato “La Academia”) e “Los Diablos Rojos” dell’Independiente.


Bene, una volta il Racing era tra le squadre più forti d’Argentina. Un giorno – il 5 novembre del 1967 – fu addirittura riconosciuto il club più forte al mondo: la notte precedente, infatti, aveva fatto sua la Coppa Intercontinentale superando allo spareggio sul campo neutro di Montevideo, in Uruguay, il Celtic Glasgow. Lo aveva fatto grazie ad una ferrea volontà, che gli aveva permesso di vincere in rimonta la gara di ritorno in casa, lo aveva fatto grazie alla classe dell’anziano prodotto di casa – tornato a chiudere la carriera dall’Italia – Humberto Maschio e a due gol di Juan Carlos Càrdenas. Sembrava, quella notte, l’inizio di un lungo periodo di successi: per giocare l’Intercontinentale, infatti, il Racing aveva prima fatto sua la Coppa Libertadores, l’equivalente della Coppa dei Campioni – per formula e prestigio – del Sudamerica, superando in finale, anche qui allo spareggio, il Nacional di Montevideo.


Invece, la notte che doveva segnare l’ingresso del Racing nella nobiltà del calcio argentino – se non mondiale – ne sancì la fine. Il motivo? I tifosi rivali dell’Independiente, i cadaveri di sette gatti neri e un’irruzione notturna. Gli ingredienti di quella che poi sarà nota a tutti i tifosi de “La Academia” come la “Maldiciòn de los siete gatos negros”.

La maledizione dei sette gatti neri.

Cosa è successo in buona sostanza? Che la notte, mentre i tifosi del Racing sono giustamente attaccati alle radioline e alle poche tv per seguire le gesta della propria squadra, quei figli di buona donna dei tifosi dell’Independiente pensino bene di raggiungere lo stadio del Racing, “El Cilindro”, e quindi di irrompervi, seppellendo qua è la per il manto erboso i cadaveri di ben sette gatti neri. Un macabro gesto scaramantico, dovuto non solo alla rabbia per le vittorie degli odiati vicini (gli stadi delle due squadre distano, in linea d’aria, neanche 300 metri) ma anche alla spocchia con cui questi, a loro dire, si vantano di essere i migliori: “La Academia”, infatti, deriva proprio dal modo di giocare, bello e a tratti altezzoso, del Racing dei tempi, parecchio distante da quello tutto carattere e calcioni di molte squadre argentine dell’epoca.


Ora, si può credere o non credere nelle superstizioni, ma quel che accade al Racing dopo quella notte ha dell’incredibile: da club tra i più vincenti d’Argentina, infatti, “La Academia” si trasforma in una delle squadre più sfortunate che la storia del calcio ricordi.
Ai 15 titoli nazionali ottenuti prima di quella notte, infatti, farà seguito appena un torneo di Apertura conquistato nel 2001 conquistato nella sorpresa generale e seguito però subito dopo da un nuovo tonfo in classifica. E anche nelle varie coppe che si giocano in Sudamerica il bilancio è impietoso: prima del 1967 il Racing aveva conquistato 12 coppe nazionali e ben 5 trofei continentali – tra cui la citata Intercontinentale contro il Celtic – dopo di allora arrivano la miseria di 2 coppe nel 1988, una Supercopa Sudamericana e una Copa Interamericana. Prima e dopo questo misero raccolto il nulla più assoluto, proprio mentre i vicini di casa dell’Independiente si guadagnavano il soprannome di “Rey de Copas” grazie alle ben sette (!) affermazioni in Coppa Liberadores – di cui ben quattro (!) consecutive tra il 1972 e il 1975 – e alle due Coppe Intercontinentali vinte nel 1973 e nel 1984.


Da quella notte del 1967 il Racing de Avellaneda vive un periodo grigio negli anni ’70, retrocede nei primi anni ’80, vede il proprio stadio chiuso per inadeguatezza strutturale e conosce anche il rischio di bancarotta, che lo costringe a cedere la giovane stella Diego Milito (protagonista nella vittoria del Campionato d’Apertura 2001) al Genoa. A nulla valgono stregoni, esorcismi e messe nere organizzate dal club per tentare di scacciare la maledizione dei sette gatti neri: si decide persino di smantellare quasi interamente il campo, ma delle sette carcasse ne viene ritrovata soltanto una. Non basta. Quasi cinquant’anni sono passati da quella notte, e l’incubo di chi tifa Racing non sembra aver fine. Eppure, nel buio, ecco un barlume di speranza: quest’estate è tornato a vestire la casacca bianco-blu, dopo oltre dieci anni, il più grande giocatore della storia recente di questo club. Diego Milito, “El Prìncipe”, l’uomo del “Triplete” dell’Inter. Che sia la volta buona per tornare al successo? Certo vista la caratura dei compagni citati ad inizio articolo la strada non sembra per niente facile, tuttavia al Racing non possono far finta di non credere nella scaramanzia e nelle superstizioni. E allora chi meglio di un “Principe” può sconfiggere una maledizione?


Editing: Sara Vasi 

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