Calcio
Iwuchukwu Amara Tochi, morire inseguendo un sogno
Diventare un calciatore professionista è il sogno di ogni bambino.
A maggior ragione quando questa è l’unica strada che può portarti via da una realtà fatta di miseria, violenza e soprusi.
Giocare a calcio era anche il sogno di Iwuchukwu Amara Tochi, bambino nigeriano cresciuto in mezzo a mille difficoltà e che tuttavia, inseguendo un pallone aveva dimostrato di saperci fare: forse non abbastanza per inseguire un posto nei campionati più importanti al mondo, ma tanto da poter ambire di giocare nei tornei del sud-est asiatico, dove non circolano i milioni ma dove si può comunque diventare dei professionisti.
Dopo un’infanzia durissima, che vede i suoi genitori affidarlo a una chiesa per via della grave indigenza in cui versano, Tochi si unisce a un club calcistico in Senegal, gioca bene e guadagna un posto nella Nigeria Under-14 che partecipa al “West African Championship”. Ma in Senegal il calcio locale non è certo ricco o colmo di opportunità ed è per questo che il ragazzo decide di spostarsi a Dubai. Non c’è un ambasciata degli Emirati Arabi in Nigeria per via dei rapporti tesi tra i due paesi, e il solo modo per ottenere un permesso di soggiorno è quello di andare in Pakistan per procurarselo per poi prendere un treno da Islamabad a Dubai. O almeno, questo è quello che dice a Tochi un sedicente agente, che parte con i pochi risparmi di una vita alla volta del Pakistan solo per scoprire sul posto che non esiste nessuna ambasciata e – oltretutto – nemmeno alcun treno.
Disperato, cerca aiuto nella chiesa locale di Sant’Andrea, che gli fornisce cibo e un posto dove dormire. Il sogno sembra tramontare, ma ecco che improvvisamente tutto sembra prendere una bellissima piega, come in un film. Una domenica, al termine della messa, Tochi viene avvicinato da un uomo che si presenta come “Mr. Smith”. È un ingegnere e sostiene di appartenere alla stessa tribù del giovane, che anzi riconosce come calciatore, ricordando un rigore fallito da Tochi nel torneo Under-14 a cui aveva partecipato. Mr. Smith chiede cosa ci faccia un calciatore in Pakistan, dato che lo sport nazionale è il cricket e non certo il calcio, e piano piano ottiene la fiducia di Tochi che gli racconta la sua storia e i suoi piani – falliti – di ottenere un permesso di soggiorno per gli Emirati Arabi. Mr. Smith sembra colpito e sostiene di voler aiutare il giovane a inseguire il suo sogno: di tanto in tanto gli porta del cibo, quindi anche dei soldi. I due fanno persino un viaggio a Dubai insieme, ma Tochi non può ottenere il visto in quanto assente di conto bancario o qualsivoglia assicurazione. Il ragazzo è affranto ma Mr. Smith ha ancora una soluzione: un amico a Singapore che potrebbe allungargli qualche soldo. Non più Dubai dunque, ma Singapore: sempre di calcio professionistico si parla, e inoltre il permesso di soggiorno lì non dovrebbe essere un problema.
(un villaggio nigeriano come quello in cui è cresciuto Tochi)
Tochi si mette in viaggio dunque per Singapore. Il biglietto aereo e un paio di biglietti da 100 $ li mette Mr. Smith, che però chiede in cambio un favore: portare delle erbe mediche a un amico gravemente malato, un amico che si sarebbe fatto trovare all’aeroporto.
Il giovane nigeriano accetta, fidandosi di quel brav’uomo che ha fatto di tutto per aiutarlo: è in quel momento che la sua strada cambia, e lo porterà ad incontrare la morte invece che il successo nel calcio.
Arrivato a Singapore, infatti, Tochi aspetta l’amico di Mr. Smith, che dovrebbe arrivare con un volo dall’Indonesia: secondo gli accordi, l’amico incontrerà il ragazzo, ritirerà le sue erbe mediche e gli darà un migliaio di dollari per sostenere le prime spese.
Aspetta quasi per un giorno: non sa che il volo dell’amico di Mr. Smith è stato cancellato e che quel rimanere in attesa per più di ventiquattro ore ha insospettito le autorità locali.
Ed è così che la polizia avvicina il giovane nigeriano, che si dimostra subito collaborativo, raccontando per filo e per segno chi è e cosa fa lì: a Singapore, senza un minimo di soldi in tasca, vieni spedito fuori dal Paese. Ovviamente Tochi non ha che un centinaio di dollari in tasca, ma non c’è problema: l’amico che sta aspettando gli porterà dei soldi per rimanere, come promesso da Mr. Smith, che Tochi aveva nel frattempo chiamato ricevendo l’ordine di aspettare fiducioso.
Ce ne è abbastanza per controllare il carico, ed è qui che la polizia trova oltre 700 grammi di eroina divisi in un centinaio di capsule: per Tochi però c’è un errore, quella non è droga ma la medicina per l’amico malato di Mr. Smith, che nel frattempo è stato a sua volta arrestato non appena sceso dal volo. Si tratta di Okeke Nelson Malachy, a suo dire giunto a Singapore per trattare l’acquisto di un auto di seconda mano ma che non possiede con sé né carte di credito né passaporto: o meglio, quello che ha è palesemente falso.
Indagini sulla SIM del suo telefono, inoltre, dimostrano una fitta comunicazione con Mr. Smith, che sul telefono è chiamato “Dogo” e la cui vera identità purtroppo non verrà mai scoperta. Mr. Smith e Malachy sono quindi due spacciatori internazionali e il giovane e ingenuo Tochi è finito nel mezzo a una storia più grande di lui. O almeno, così sembra evidente a tutti. A tutti tranne che alle autorità di Singapore, che arrestano sia Malachy che Tochi: al ragazzo è concesso fare una telefonata; chiama a casa chiedendo aiuto al fratello, che però non dirà mai niente al padre – la madre è morta anni prima – per paura di farlo morire di crepacuore.
Il processo è a senso unico. Al giudice appare evidente che Tochi non sapeva che le capsule che trasportava fossero eroina, come evidenziato dal suo comportamento tranquillo di fronte alle autorità e all’aver addirittura ingoiato una capsula davanti ai poliziotti, atto teso a dimostrare che quella che trasportava era medicina e non certo droga. Ovviamente si era sentito male e solo una pronta lavanda gastrica gli aveva salvato la vita.
Eppure, anche se non sapeva che fosse eroina, Tochi per il giudice doveva sapere che c’era qualcosa che non andava: Mr. Smith aveva offerto dei soldi per quel lavoro e il ragazzo aveva accettato senza farsi domande. Possibile che non sospettasse niente? Secondo il giudice, insomma, Tochi non poteva non sapere che il carico che trasportava fosse particolare e avrebbe dovuto accertarsi della sua effettiva composizione. Malachy, invece, altri non era che il gancio di Mr. Smith: la quantità di droga trovata avrebbe fruttato quasi un milione di dollari americani a lui e a Mr. Smith, e durante il processo questi ammette anche che Tochi era all’oscuro di tutto. Ma non basta.
Sia Malachy che Tochi vengono condannati a morte. Il Presidente Nigeriano, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, Amnesty International e molti altri organi umanitari chiedono più volte la grazia o l’estradizione per Tochi, colpevole solo di ingenuità, di aver inseguito un sogno, e di essersi fatto arrestare in uno dei paesi più severi al mondo verso lo spaccio di droga.
Ma non c’è niente da fare e la mattina del 26 gennaio del 2007, dopo poco più di due anni dall’arresto, Tochi viene impiccato. Ha poco più di vent’anni. Gli ultimi minuti della sua vita li spende piangendo e dicendo al suo avvocato di dire a chi lo ha amato di pregare per lui. Nella lingua della sua tribù, il suo nome significava “Grazia di Dio”.
Finisce così il sogno di Iwuchukwu Amara Tochi, che da bambino sognava di emulare Jay Jay Okocha e che invece trova la morte in un carcere di Singapore senza aver mai potuto giocare da professionista.
Colpevole di non aver voluto rinunciare al suo sogno.
Editing: Eleonora Baldelli
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