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Calcio

Marco Macina, quello più forte di Mancini – 28 ago

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Quando l’estate finisce, forse, Marco dà un’occhiata distratta ai giornali e ricorda i suoi tempi: ricorda gli esordi, ricorda il suo nome su quelle pagine, ricorda le estati delle grandi attese e quelle delle delusioni. O forse no, forse al pallone preferisce non pensarci proprio più, per dimenticare quello che non è stato ma poteva essere, se solo “se”.
La storia di Marco Macina è quella di tanti, troppi giocatori dimenticati. Ragazzi prigionieri di un talento più grande di loro, nati nell’epoca sbagliata, quando se uscivi dal giro sparivi e non tornavi più e se eri eccentrico, giovane e ribelle quasi quasi te ne facevano una colpa. Era forte Macina, molto forte: chi ci ha giocato insieme dice di avergli visto fare cose mai più viste, numeri che forse solo Leo Messi. Che era veloce e molto tecnico, che al pallone dava del tu come solo i predestinati. Tutti dicevano, ai tempi del suo esordio, che fosse più forte di Roberto Mancini. Che sarebbe stato il futuro del Bologna, anzi, il futuro del calcio italiano. Senza scherzi. Ma il pallone, come la vita, ha regole tutte sue, molte non scritte, e se non le vuoi rispettare allora devi essere fortissimo e fortunato. Macina a quelle regole – si dice – non sapeva sottostare. Era fortissimo. Ma non fortunato.

Coetaneo di Mancini, fa il suo esordio nel Bologna nella stagione 1981-82. È una compagine, quella rossoblù, che dovrebbe dare spettacolo (con i due talenti Macina e Mancini e quel genio sregolato di Alviero Chiorri) e puntare almeno alla metà della classifica. Dovrebbe, perché invece tutto si sgretola: la squadra che la stagione prima con Radice in panchina si è salvata nonostante una penalizzazione non si ripete con Burgnich e per la prima volta il Bologna è in Serie B. Macina mette insieme appena 8 gare, meno dei gol di Mancini, che sono 9 e che tuttavia servono solo ad attirare la Sampdoria che se lo porta via. Chiorri ha giocato poco e convinto meno, era in prestito, e pure lui torna a vestire il blucerchiato. Rimane Macina, dal quale il Bologna vorrebbe ripartire, ma è un anno sbagliato, succede di tutto. Anche l’imprevedibile, e cioè che i rossoblù invece di lottare per tornare in A come da programma si trovano nei bassifondi della classifica, retrocedendo e toccando quello che ai tempi era il punto più basso della loro storia.
Macina ha giocato poco, il Bologna è così in difficoltà che non ha tempo di crescere un giovane seppur di talento come lui, ed è così che viene mandato in prestito a “farsi le ossa”.

La prima tappa è Arezzo, Serie B. Marco gioca pochino ma lo fa bene, contribuendo al sorprendente 5° posto finale. Non basta, ci vuole un’esperienza più importante, un test vero, un luogo dove vedere se il ragazzo “si farà”: i dirigenti del Bologna lo individuano nel Parma, neopromosso in Serie B proprio insieme ai rossoblù. Macina finisce in una squadra che sulla carta ha tutte le carte in regola per mantenere la categoria. I compagni sono i futuri campioni Roberto Mussi, Gabriele Pin, Nicola Berti, un altro talento che come lui sfumerà presto e la cui storia meriterebbe di essere narrata, Dante Bertoneri, e l’ormai anziano (di ritorno dall’America) Oscar Damiani. Non bastano tre allenatori a salvare i ducali, che retrocedono di schianto, ma stavolta Macina gioca con continuità e gioca bene: 26 presenze, 3 reti, resterà la stagione migliore della sua carriera, anche se chiaramente lui – e tutti gli addetti ai lavori – la pensano diversamente: a poco più di vent’anni, il meglio deve sicuramente ancora arrivare.

Roberto Mancini nel frattempo si è imposto in Serie A, smentendo chi diceva che Macina fosse più forte di lui. Ma la storia può cambiare, visto che Marco viene acquistato nientemeno che dal Milan, 5° in massima serie la stagione precedente ed allenato da quel mago che corrisponde al nome di Nils Liedholm. La stagione in B è servita, il futuro è adesso. Macina va a vivere in un residence insieme ad altri giovani rossoneri e passa l’estate del ritiro a stupire compagni, allenatore (“Un giocatore più veloce con la palla che senza, mai visto” dirà Liedholm) ed il pubblico che assiepa gli allenamenti di un Milan che però non è in un bel momento dal punto di vista economico: il presidente Farina si dimetterà a febbraio, la squadra si piazzerà comunque settima e finirà nelle mani di Berlusconi, che la trasformerà nella più forte compagine al mondo. Macina gioca poco, un po’ perché davanti ha nomi del calibro di Hateley, Virdis, Paolo Rossi, e un po’ perché si dice che abbia diversi comportamenti fuori dalle righe: fugge dai ritiri, è travolto come è normale che sia dai suoi vent’anni e poco più, dalla “Milano da bere”, dalla notorietà che tutto ad un tratto gli è piovuta addosso, insieme alle enormi aspettative di stampa e addetti ai lavori. Non convince, e in società pensano che se si vuole recuperarlo bisogna mandarlo in un club che possa dargli continuità. Ancora. Il nuovo club individuato per tale scopo è la Reggiana. Così, mentre al Milan esplode il talento di Paolo Maldini ed il mercato porta future icone della storia rossonera come Donadoni e Massaro, Macina finisce nel tritacarne della Serie C, categoria dove si può emergere o affondare. E affonda.

Non è che Marco non abbia voglia o sia depresso. Certo, per chi ha avuto la ribalta nazionale appena un anno prima, per chi ha calcato San Siro, i campi scalcinati della terza categoria non sono proprio il massimo. Però il talento è talento, Macina gioca bene in una squadra che sorprende finendo addirittura terza, mette insieme 24 gare, segna qualche bel gol.
Non basta per convincere il Milan a riprenderselo. I rossoneri sono ormai lanciati verso i più alti livelli del calcio mondiale, in panchina è arrivato “il profeta di Fusignano” Arrigo Sacchi, Macina non è uno che può trovare spazio nella super-squadra che Berlusconi sta allestendo. Ci vuole un altro prestito, per vedere se il ragazzo si conferma. Stavolta Marco va ad Ancona, e le cose non andrebbero nemmeno tanto male, pur se le motivazioni sono ormai quelle che sono per uno con la sua testa ed il suo ego: in estate stupisce tutti, è comunque tecnicamente di ben altra categoria rispetto alla C1 dove giocano i dorici. Parte bene, convince. Poi, alla quarta giornata sul campo dell’Ospitaletto, sente dolore al ginocchio destro: i medici minimizzano, ma quando nei giorni successivi il dolore non svanisce effettuano esami più approfonditi. È saltato un legamento, la stagione è finita. La carriera – ma in quel momento chi può saperlo? – pure. Rientra, gioca qualche scampolo di partita, ma non è più lui. Il legamento, le motivazioni, la depressione. Chi lo sa.
Il contratto con il Milan è scaduto, ma a quei tempi la “legge Bosman” deve ancora arrivare. Se vuole trovare squadra deve essere ceduto comunque, oppure può restare un anno fermo, svincolarsi e ricominciare da capo. Sceglie quest’ultima opzione, si rimette in forma, ma nella stagione dopo – in ritiro al Ciocco con gli svincolati – non riceve nessuna telefonata. Qualcosa, sì, ma niente che Marco reputi alla sua altezza, niente che lo convinca a riprendere in mano il talento enorme che ormai ha perso. Chiama qualche procuratore, tra cui Nardino Previdi, che aveva conosciuto a Reggio Emilia, e l’ex-compagno Damiani. Ottiene solo belle parole, qualche vaga promessa che sfuma nell’aria come il suo talento cristallino. “Il mondo del calcio – dirà – me l’ha fatta pagare, certa gente non poteva tollerare che uno come Macina rientrasse a costo zero, senza un bel trasferimento in denaro.”


Si chiude in se stesso, abbandona l’agonismo, scompare. Qualche gara con la neonata nazionale di San Marino, dove è nato e di cui insieme a Massimo Bonini è stato il solo rappresentante a giocare in Serie A nella storia. Ma c’è da deprimersi, tocca tre palloni a partita, sono un pugno di gare a 26 anni. La carriera “vera” l’ha terminata due anni prima, appena ventiquattrenne.
Scompare, Marco Macina, “il futuro del calcio italiano”. Non torna più nel calcio, in nessuna veste. Per qualche anno ci crede ancora, mentre vive con i suoi a San Marino, evitando pure di giocare le partitelle con gli amici (“Sono troppo sopra la media, non mi divertirei io e non si divertirebbero loro”) fino a restare un nome che solo in pochi ricordano. Quello che era più forte di Mancini. Che lo fa tornare alle cronache quando lo cita in un’intervista. Parla di Balotelli, “il Mancio”. Dice che gli ricorda un suo compagno ai tempi del Bologna. E’ proprio lui, Marco. “Forse era più forte di me, ma non aveva la testa giusta e si è perso”, dice.

“Si, ero più forte di Roberto”, conferma lui.
Vallo a dire al Dio del Pallone.

PS: Ho parlato di Marco Macina, Alviero Chiorri e altri talenti bruciati in un altro articolo che potete leggere QUI.

Editing: Sara Vasi 

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