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Monday Night – Il terremoto dell’Irpinia e il miracolo Avellino

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Cosa ricordo di quel giorno? Piazza Libertà piena di lenzuoli bianchi, adibita a luogo di riconoscimento dei corpi tirati fuori dalle macerie dei vicoli circostanti. Case sgretolate, persone disperate per strada. Mi avvicino d’istinto per chiedere se ci sia bisogno d’aiuto, e vengo strattonato da una ragazza. “Capitano, capitano, hai visto cosa è successo?”, diceva con il volto ancora irrorato dalle lacrime. “È un disastro, è un disastro! Per fortuna che almeno abbiamo vinto, che bella partita avete fatto oggi…”

(Salvatore Di Somma, capitano dell’Avellino nella stagione 1980/81)

 

L’Avellino in ginocchio, Avellino in ginocchio. Due titoli così afferenti, due eventi così differenti.

 

L’estate del 1980 sconvolse la città irpina, con la definitiva sentenza del Processo Totonero che attribuiva ai lupi biancoverdi la penalizzazione di 5 punti per il successivo campionato di Serie A. Poco, se confrontato alle retrocessioni d’ufficio conferite a Milan e Lazio, ma abbastanza per abbattere il morale di una vivace piazza di provincia, alla sua terza stagione nella massima serie. “L’Avellino in ginocchio”, titolarono i quotidiani locali, in riferimento alla condanna ricevuta dalla società che proprio nella già citata Piazza Libertà aveva la sede amministrativa.

 

È l’estate in cui il calcio italiano riapre le proprie frontiere agli stranieri, dopo quattordici anni di embargo imposti in seguito alla clamorosa eliminazione al Mondiale del 1966 per mano della Corea del Nord (ricordate il dentista – che poi dentista non era – Pak Doo-Ik?). Uno straniero, al massimo, per ciascuna squadra: da Prohaska, del quale parlammo in una delle ultime Christmas Tales, all’Inter fino al mastino olandese Krol al Napoli, passando per lo juventino Brady, il compianto bolognese Enéas e, su tutti, l’ottavo Re di Roma Falcão.

 

La tribolata stagione passata tra verbali e carte bollate riduce pro tempore la libertà di manovra del sodalizio avellinese, che nel frattempo ha affidato la propria panchina al brasiliano Luis Vinicio, approdato in Irpinia dalla vicina Napoli. Il presidente è l’avvocato Fausto Maria Sara, ma il timone del comando è saldo tra le mani del commendator Sibilia, già prima figura dirigenziale negli anni precedenti e poi autodeclassatosi – si vocifera – per sfuggire alle indagini del pool anticamorra.
È Sibilla ad avere l’ultima parola su tutto, campagna acquisti inclusa: è lui a decidere chi comprare, è lui a trattare con le altre società, è lui a decidere quale straniero arriverà. O meglio, è lui, ad Agosto inoltrato, ad apporre la firma decisiva sul cartellino di tale Juary, attaccante brasiliano proveniente dal Messico, acquisto caldeggiato da Luis Vinicio in persona.

 

Sibilia, poco avvezzo al calcio estero, si fida nonostante le titubanze relative alla struttura fisica del giocatore – Juary, all’approdo in Italia, sfiora a stento il metro e sessantacinque e non supera i sessanta chili – sottolineando però, come da successive confessioni del neoacquisto, che allo stesso viene una fiducia a tempo di tre mesi. Bastano un paio di settimane per conquistare tutta Avellino. Al primo impegno ufficiale nel quale è impiegato, la partita di Coppa Italia contro il Catania, ridicolizza tutta la difesa e va a segno, con tanto di esultanza che resterà negli annali del calcio italiano: la Danza della Bandierina. Juary diventerà il gonfalone da esporre negli impegni, siano essi istituzionali o meno. Lo stesso Sibilla, nei primi giorni di ottobre, lo prende sottobraccio e lo porta con sé in tribunale per consegnare una medaglietta d’oro ad un caro amico. Quell’amico, arrestato da qualche mese, è Raffaele Cutolo, esponente di spicco della Nuova Camorra Organizzata la cui figura fungerà da ispirazione, nel 1990, ad un certo Fabrizio De André nella composizione del testo della ballata Don Raffaè.

 

Al quinto turno di campionato, grazie a due vittorie e un pari, la penalizzazione è già annullata, al sesto il 2-1 interno sul Como vale, di fatto, i primi due punti in graduatoria. Avellino ci crede, al netto della situazione che permane deficitaria e del ko ottenuto nel derby di Napoli la settimana successiva. Avellino esplode di gioia, intorno alle 16.15 del 23 Novembre 1979, al fischio finale del signor Benedetti di Roma che sancisce il 4-2 interno sull’Ascoli. Avellino si sgretola, alle 19.34 dello stesso giorno, mentre – ironia della sorte – 90° Minuto trasmette le immagini della gara del Partenio.

 

Avellino è in ginocchio”, titoleranno, il giorno dopo, i quotidiani nazionali. Sarà la provincia, più del capoluogo, a piangere le vittime del terremoto: saranno 1.598 i morti in Irpinia, dei quali 82 nel suo centro principale, con Sant’Angelo dei Lombardi che perde in un momento un decimo della propria popolazione (482 vittime). I danni provocati dal movimento tellurico si estendono anche oltre i confini territoriali: la provincia di Salerno conterà 536 morti, dei quali 303 nel solo comune di Laviano, quella di Potenza 150; saranno duramente colpiti, pur senza perdita di vite umane, diversi comuni delle province di Benevento, Caserta, Napoli, Matera e Foggia.
La situazione più critica si concentra intorno all’epicentro del sisma, al confine tra l’Irpinia e l’alta valle del Sele, con numerosi centri disastrati e gli abitanti costretti a lasciare le proprie case. Proprio Avellino diventerà centro delle operazioni della Protezione Civile, con lo stadio Partenio, fino a poche ore prima teatro della vittoria dei verdi locali, utilizzato quale eliporto per il trasporto dei feriti gravi. L’antistadio, invece, diverrà una tendopoli atta ad ospitare numerosissimi sfollati della città.

 

Per ovvi motivi, il calcio passa in secondo piano. Per tutti, ma non per la Federazione, la quale di fronte alle richieste di rinvio per la gara che vedrà, la domenica successiva, l’Avellino impegnato nella trasferta contro la Pistoiese, chiude gli occhi e tappa le orecchie. Una squadra ancora traumatizzata dall’evento, costretta ad allenarsi nei pochi spazi disponibili in attesa di trovare una struttura idonea ad accogliere la squadra per un periodo indeterminato, cade a Pistoia e nella successiva gara di Udine, ritrovando la vittoria sul campo neutro di Napoli (1-0 al Catanzaro) alla prima in casa.
Il miracolo, però, è ancora tutto da compiere: il gruppo, straordinariamente compatto, fuoriesce dalle sabbie mobili grazie ad un filotto di sei risultati utili consecutivi, mantenendosi a galla per tutto il resto della stagione e festeggiando la salvezza all’ultima gara di campionato, grazie al pareggio ottenuto in casa contro la Roma. Il ritorno al Partenio sarà fondamentale per la squadra, che sul campo amico otterrà 19 punti sui 26 disponibili, grazie ad 8 vittorie ed un pareggio. Una piccola gioia in mezzo al disastro; Avellino conserverà la Serie A per sette ulteriori stagioni fino alla retrocessione del 1988/89, anno nel quale la città abbandonerà definitivamente la massima serie.

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