Calcio
Monday Night – Io, la Salernitana e la festa strozzata dall’alluvione di Sarno
(con Marco di Vaio)
Estate 1997, Roma.
Sono a casa, reduce dall’esperienza di Bari e dalla seconda promozione in Serie A, dopo quella di Verona dell’annata precedente. Due stagioni esaltanti, eppure sotto il profilo personale voglio fare qualcosa di più, mettere un’impronta più decisa sulla mia carriera.
Il mio cartellino è ancora della Lazio, squadra nella quale sono cresciuto e che mi ha lanciato nella massima serie. All’epoca, campionato 1994/95, fu un maestro come Zdenek Zeman a farmi calcare, per primo, il prato dell’Olimpico, dandomi la fiducia giusta per esordire in A. Il mister è ancora a Roma, ma dopo l’esonero dell’anno precedente ha cambiato sponda cittadina, passando alla guida dei giallorossi; a Formello arriva Eriksson, per me nell’immediato non c’è posto.
Tra le squadre interessate a me, fa capolino la Salernitana. Piazza calda, del Sud, che vive il calcio in maniera viscerale. Ma, soprattutto, a guidarla c’è Delio Rossi, allievo proprio di Zeman, del quale era stato prima giocatore e poi collaboratore ai tempi del Foggia. Gioco spregiudicato, 4-3-3 a trazione offensiva e tanti palloni per le punte: è la mia prima scelta assoluta. Ritorno in B, per il terzo anno di fila, e questa volta in una squadra che non ha dalla sua i favori del pronostico in termini di classifica. Ciò che più mi interessa è trovare la dimensione più adatta alle mie caratteristiche: firmo a titolo definitivo, staccando il cordone ombelicale che mi legava al passato.
È un’atmosfera magica, sin dai primi giorni. L’Arechi, in festa per il ritorno in panchina di Rossi, già artefice della promozione dalla C1 alla B, diventa il letterale dodicesimo uomo di una formazione profondamente rinnovata rispetto alla stagione precedente. Più che negli interpreti, è una Salernitana nuova nel modo di leggere la partita, di vivere il gioco.
Capiamo sin dall’inizio che potrebbe essere una stagione memorabile, ci sono tutti gli ingredienti giusti per fare un’impresa. All’esordio, contro il Verona, più di 20.000 persone ci spingono al successo: 2-0 finale e prima marcatura della nuova esperienza. Tutto gira a meraviglia, alla quarta giornata ho già eguagliato il record personale di reti (3), alla sesta lo supero con la doppietta contro il Perugia. 5 gol siglati nelle tre gare interne; a Castel di Sangro, settimo turno di campionato, siglo i primi gol fuori casa e arrivo a 7 in 7 gare. Ma non è finita qui: col Pescara, nella gara immediatamente successiva, finisce 5-1 e metto a segno la quarta doppietta stagionale. In otto partite, abbiamo segnato 20 gol, subendone appena 6, e siamo in testa alla graduatoria.
Voliamo, sulle ali dell’entusiasmo. La prima sconfitta giunge ad un passo dal giro di boa, alla diciottesima di campionato, per mano del vecchio amore del mister. È il Foggia ad infliggerci un ko che, anziché abbatterci, ci rafforza. Mattone dopo mattone, continuiamo a costruire il nostro miracolo. La curva è una perenne bolgia e ci aiuta a coltivare un sogno: alla ventiduesima giornata perdiamo l’imbattibilità interna, contro il Chievo, ma con la doppietta personale arrivo a 18 reti in 21 presenze.
Una stagione, si sa, è fatta di alti e bassi per ogni giocatore: per qualche giornata non segno più, ma i miei compagni confezionano le reti che ci portano al 3-2 con l’Ancona della trentunesima di campionato: contro il Genoa, al Ferraris, abbiamo il primo match point per raggiungere quella Serie A che, in città, manca da 50 anni esatti.
Ci sono più di 2000 tifosi, giunti da Salerno, sugli spalti. Andiamo sotto con il gol di Kallon, ma qualche minuto dopo confeziono, su assist di Breda, la rete del pareggio. Finisce 1-1, ma non è ancora sufficiente per festeggiare: basterà un altro pareggio, in casa contro il Venezia, per poter raggiungere il traguardo. L’appuntamento con la storia è fissato per domenica 10 Maggio.
Dei giorni immediatamente precedenti la gara, ricordo solo una pioggia battente che speravamo si dissolvesse in vista del week-end, così da poter vivere una giornata di festa sotto i raggi del sole. Tra lunedì e martedì Salerno è colpita da una quantità d’acqua mai vista in vita mia: ci alleniamo poco e male. In città l’atmosfera è tranquilla, mentre in provincia si preparano a vivere il peggio. Nella serata di martedì ci informano di alcune frane occorse nei comuni della provincia, roccaforte del tifo salernitano, ma solo nella mattinata seguente scopriremo della devastante tragedia che aveva colpito il territorio.
Nel tardo pomeriggio del 5 Maggio 1998, dalle cime del Monte Saro si staccano 2 milioni di metri cubi di fango. Le caratteristiche geologiche del terreno, costituito da diversi substrati di origine vulcanica, più fragili rispetto alla roccia calcarea sottostante, favoriscono lo scivolamento a valle dell’immensa mole di terra e detriti. La progressiva deforestazione del territorio, insieme all’abusivismo edilizio e all’incuria dei canali di scolo, contribuì a creare numerosi smottamenti e frane: Bracigliano e Siano, i due comuni più prossimi al Pizzo d’Alvano, punta più alta del monte, sono i primi ad essere colpiti insieme a Quindici, borgata in provincia di Avellino costruita sull’altro fronte del monte. Il peggio, però, accade quando la colata travolge Episcopio e si abbatte sul comune di Sarno, letteralmente travolto da una montagna di fango in movimento, alta più di 3 metri. La sola Sarno piangerà 137 vittime sulle 160 complessive dell’alluvione.
Quando apprendiamo la notizia, a 4 giorni dalla sfida più importante dell’anno, siamo scioccati. Il presidente Aliberti si muove personalmente per verificare se è possibile rinviare la partita: nessuno di noi, in quel momento, si sente pronto a giocare, ma la richiesta viene rigettata. Dopo aver lasciato morte e distruzione, la pioggia lascia spazio a un clima più mite permettendoci di preparare il match come meglio possiamo. E per quanto cerchiamo di essere concentrati, la testa è sempre a Sarno e ai comuni limitrofi colpiti dalla tragedia.
Domenica, prima del calcio d’inizio, lo stadio è pieno in ogni ordine di posto. Durante il riscaldamento, la curva canta e ci sostiene verso l’impresa, al rientro dagli spogliatoi l’atmosfera è completamente mutata. Il minuto di silenzio pare durare un’eternità, la Sud espone uno striscione che parla da solo. Purtroppo la vita continua. Nei primi dieci minuti di gara, in segno di lutto, la Curva rimane in silenzio, poi riparte a cantare. Fino al novantesimo.
Sarà stato un caso: mai, nella stagione 97/98, eravamo usciti dall’Arechi senza nemmeno segnare una rete. Fu come se qualcuno ci avesse chiesto, in quel momento di dolore, di evitare eccessivi festeggiamenti. Che pure partono, pur in tono sommesso e limitati solo allo stadio, senza caroselli per strada, al fischio finale di Sirotti: finisce 0-0, siamo in Serie A. E questa volta, la giocherò da protagonista, dando il via ai capitoli più alti della mia carriera. Porterò sempre nel cuore, comunque, i due anni di Salerno, il mio trampolino di lancio.
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