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Monday Night – Roy&George: il cielo è irlandese sopra Manchester! – 26 Sett

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Già, la cara vecchia Irlanda. Terra di verdi brughiere e leggende celtiche. Di birra scura e musiche suadenti. Terra di druidi e scrittori. Di domeniche insanguinate e di sbronze colossali. Isola audace e religiosa. Isola dai due volti e dalle due lingue. Gente orgogliosa, che parla inglese con l’accento atipico ma che sa scrivere persino in gaelico. Una landa ai confini dell’Europa, dove nei secoli passati il vento dell’Ovest spingeva migliaia di persone verso il “nuovo mondo”.

“Profughi e Santi” recitava la strofa di una famosa canzone e nulla di più vero fu mai scritto. Un popolo forte e sparpagliato, incollato da quel fuoco che la nazionale di rugby riaccende nel popolo di San Patrizio. Un unico spirito che accomuna tutti gli irlandesi sotto lo stesso trifoglio: quelli del nord e quelli della repubblica. Quelli che la Guinness la pagano in Pounds e quelli che la pagano in Euro. Esiste una “canzone-simbolo” che sorpassa tutte le divisioni sociali ed economiche.“Ireland’s call” (la chiamata irlandese), s’intitola il brano che eccezionalmente si sente suonare prima di una partita del 6 Nazioni e che ricorda al mondo intero come spesso i confini siano solamente linee tracciate sopra una mappa. Da Baile Atha Cliath (quella che per il resto del mondo è nota come Dublino), passando per Belfast e giungendo sino alla costa occidentale, non c’è un sol uomo che non abbia tenuto in mano una palla ovale. Non c’è un sol uomo che non abbia alzato al cielo una pinta in quel famoso sabato del 2007, quando la confederazione irlandese schiacciò i nemici inglesi per 43 a 13 nel maestoso impianto di Croke Park.

Beh, francamente, solo il meraviglioso mondo del rugby avrebbe potuto scavalcare decenni di diatribe politico – culturali.

 Si, ok, ma il football?

Indubbiamente a queste latitudini è considerato uno sport minore. La stragrande maggioranza degli abitanti tifa Celtic, essendo per antonomasia la compagine separatista-repubblicana che gioca in un campionato britannico. Il livello interno è molto basso e non fatevi ingannare dal piccolo Dundalk (appena 40mila anime nella provincia del Louth) che sta serpeggiando in Europa League, perché il suo valore non raggiunge un terzo di quello della concorrenza continentale.

Bene, ma allora perché parlare di calcio in questo contesto?

Semplice, perché su questi prati sono germogliati due dei calciatori che hanno riscritto la storia della squadra più tifata d’Inghilterra.

Roy “Maurice” Keane nato a Cork, il 10 Agosto del 1971.

Debutta nel Nottingham Forrest agli inizi degli anni ’90 e dopo appena tre stagioni finisce alla prestigiosa corte capeggiata da Sir Alex. Il 19 Luglio 1993, lo United sborsa la cifra record di 3.75 milioni di sterline per assicurarsi il mediano irlandese e consegnare alla mitologia l’indissolubile binomio tra lui ed i successi del club. In 12 anni passati fra le mura dell’Old Trafford conquista ben 7 scudetti, 4 F.A. Cup, 4 Community Shield, una Champions League ed una coppa Intercontinentale. Nel 1999 arriva al sesto posto nella classifica per l’assegnazione del pallone d’oro. Nel 2000 vince il premio come miglior giocatore della Premier League. L’anno successivo viene inserito da Pelè nel “FIFA 100”, la speciale classifica che include i 125 migliori giocatori di sempre.

Nel 2003, balza alla cronaca anglosassone un passo della sua biografia (scritta da Eamon Dunphy) dove ammette di aver volontariamente rotto la gamba al norvegese Alf Halaand. Una sorta di vendetta attesa per quattro anni, cioè dal giorno in cui il difensore scandinavo lo accusò di simulare un infortunio, quando in realtà si stava contorcendo a terra dal dolore dopo essersi rotto i legamenti del crociato.

“Avevo aspettato abbastanza. L’ho colpito dannatamente forte. La palla era là (credo). Beccati questo Str****! E non provare mai più a ghignarmi in faccia che sto simulando un infortunio!”

In seguito a questa ammissione, Roy riceve dalla Football Association una multa di 150 mila sterline ed una squalifica di 5 turni. Nulla di insormontabile per uno dello spessore di Keane, che continua a giocare con la fascia da capitano dei Diavoli Rossi legata al braccio sino all’inverno 2005, quando divorzia consensualmente dai Red Devils dopo aver collezionato 323 presenze e 33 reti.

Il primo gennaio 2006 si trasferisce al Celtic, l’ultima squadra della carriera ed il sogno di ogni irlandese. In appena sei mesi alza la Coppa di Lega scozzese e vince il campionato davanti agli odiati rivali dei Rangers. Alla fine della stagione, con 35 primavere alle spalle, decide di ritirarsi per affrontare la carriera di allenatore.

Che straordinario giocatore è stato Roy Keane.

Un regista d’altri tempi, uno che preferiva la tomaia al fioretto. Uno che gettava il cuore oltre l’ostacolo e che tutti gli avversari temevano. Un leader carismatico come pochi altri. Uno che dentro lo spogliatoio non aveva problemi a rimettere in riga i compagni ritenuti troppo “mediatici e poco inclini al sacrificio”. Un duro, che dalla ruvida provincia di Cork è giunto sino al tetto del mondo.

Di lui Sir Alex Ferguson disse: “Se mettessi Roy Keane come rappresentante del Manchester United in uno scontro uno a uno, vinceremmo il Derby, la Premiership, una gara di barche e qualsiasi altra competizione. Possiede qualcosa di incredibile”.

George Best ( Belfast, 22 Maggio 1946 – Londra, 25 Novembre 2005)

Proprio mentre Roy stava concludendo la sua grande avventura coi Red Devils, al Cromwell Hospital di Londra ci lasciava la più luminosa stella del Manchester United.

George Best, il più grande giocatore mai nato oltre il meridiano di Greenwich.

Scoperto all’età di 15 anni dall’osservatore Bob Bishop (“credo di averti trovato un genio”, scrisse in un telegramma diretto al manager di allora Matt Busby), supera facilmente un provino sul suolo inglese ed approda immediatamente alla corte dello United .

Dopo appena un biennio come “aggregato dilettante” (le regole dell’epoca non consentivano la stipula di contratti a giovani calciatori nordirlandesi), fa il suo esordio a soli 17 anni contro il WBA nel Settembre del 1963.

Il 28 Dicembre dello stesso anno segna il suo primo gol fra i grandi, prendendo parte alla goleada con cui i Red Devils cancellano dal tabellone della F.A. Cup il malcapitato Burnely.

Ad appena 19 anni si consacra a livello internazionale, realizzando una spettacolare doppietta allo “Estadio da Luz” di Lisbona, dove il Manchester elimina dalla Coppa dei Campioni il favoritissimo Benfica.

La stampa lusitana, dopo essersi stropicciata gli occhi, quella sera lo apostroferà come “il quinto Beatle”.

Nella stagione ‘66- ’67 si laurea campione d’Inghilterra contribuendo alla causa con 10 reti in 45 presenze. L’anno successivo partecipa alla prima partita a colori trasmessa dalla tv britannica (la Charity Shield contro il Tottenham).

Nel 1967-’68 si aggiudica la classifica cannonieri a pari merito con Ron Davies del Southampton, ma soprattutto diventa il protagonista assoluto della cavalcata trionfale dello United in Coppa dei Campioni. Segna un gol decisivo in semifinale contro il Real Madrid e ne segna uno ancora più importante nei supplementari della finalissima contro il Benfica.

Al ritorno in patria viene accolto come un eroe. Per la prima volta la coppa dalle grandi orecchie plana sui cieli d’Albione e per George è l’apice del successo. Viene eletto miglior giocatore d’Europa e si aggiudica il Pallone d’oro a nemmeno 22 anni. Un trionfo prematuro, che paradossalmente ne sancì anche l’inizio del declino.

In realtà gioca ancora un paio di stagioni su buoni livelli, riuscendo persino a stabilire il record di gol siglati in una singola partita (6, contro il piccolo Northampton Town in un terzo turno di F.A.Cup), ma la condotta extracalcistica diventa via via sempre più ingestibile. Nel 1970, passa tutta la notte insieme all’attrice Sinead Cusak e la mattina seguente perde il treno diretto a Londra dove ad attendere lo United c’era il Chelsea. Nel Gennaio del 1971, rifiuta di allenarsi con la squadra concedendosi una settimana intera di vacanza con la modella Carolyn Moore. Nel Dicembre della stagione successiva si rende irrintracciabile dalla società per alcuni giorni, preferendo la vita notturna dei night club londinesi al campo di allenamento.

Il 1° Gennaio del 1964, in casa del QPR, gioca la sua ultima partita con la casacca dello United. Il suo stile di vita è tutto fuorché professionale, l’abuso di alcol comincia a farsi sentire ed il nuovo manager lo caccia fuori squadra senza appello.

A soli 28 anni, George Best, è un calciatore svincolato. In patria si è ormai costruito una pessima fama e così opta per un caotico eremitaggio in giro per il pianeta. Passa dai sudafricani Jewish Guild agli americani dei Los Angel Aztecs. Dagli irlandesi del  Cork ( si, proprio la città dove nascerà  Roy Keane) agli scozzesi dell’Hibernian (che lo licenzieranno dopo averlo sorpreso ubriaco assieme ad alcuni giocatori di rugby per le vie di Edimburgo). Finisce addirittura ad Hong Kong dove colleziona qualche gettone di presenza con il Sea Bee, prima di chiudere definitivamente la sua carriera in Australia fra le fila del Tobermore United.

Purtroppo però, la sua dipendenza non rallenta e nel 1984 viene forzato a scontare una pena di 4 mesi per guida in stato d’ebbrezza e resistenza a pubblico ufficiale. Nel 2000 la situazione si aggrava ulteriormente ed è costretto ad un ricovero, mentre nel 2002 subisce un trapianto di fegato.

A proposito della trasfusione di sangue a seguito dell’operazione dirà: “Sono stato li dentro 10 ore e ho preso 40 pinte, battendo il mio record precedente per soli 20 minuti”

Il 2 Ottobre del 2005, la sua condizione fisica precipita ed entra in una clinica privata londinese per un’infezione polmonare: non ne uscirà mai più.

Il 25 Novembre del 2005, a nemmeno sessant’anni , Best lascia per sempre la vita terrena. Il figlio Calum, poco più tardi, renderà pubbliche le sue ultime parole: ” Don’t Die like me” (non morite come me).

Che altro aggiungere, in fondo George è sempre stato così: un uomo precoce in tutto. Precoce nel diventare un calciatore professionista e precoce nel diventarne il più forte dell’epoca. Precoce nel gettare via una carriera luminosa e precoce nel buttare via anche la sua stessa vita.

Di George, oltre ai dribbling secchi e alle notti esagerate, ci sono rimasti i suoi  aforismi. Come nel 1976, quando dopo aver fatto un tunnel a Cruyff, calciò via il pallone e poi si girò verso l’olandese sussurrandogli: “Tu sei il migliore di tutti, ma solo perché io non ho tempo!”.

Già, peccato caro George che la tua vita andasse al doppio della velocità rispetto alla nostra. Saresti stato un grande compagno di viaggio, ma forse non saresti diventato quello che tutti chiamano The Best!

 

 

                                                                                                                       

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