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Calcio

MONDAY NIGHT: Storia a puntate del calcio in Italia #01 – Genoa VS Rappresentanza Torino, 6 gennaio 1898

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Quando il calcio arrivò da noi, verso la fine dell’1800, in Inghilterra era ormai da tempo diventato fenomeno di costume e ormai il nuovo sport nazionale. Un risultato ottenuto grazie ai numerosi pionieri che prima lo avevano progettato e attuato prima che altri visionari, capaci dunque di prevederne il roseo futuro, intervenissero per modificarlo in quello che oggi è il gioco che tutti conosciamo e amiamo. Ma se ormai il football era uno sport professionistico, capace di infiammare le tifoserie e portare spettatori negli stadi nell’ordine di decine di migliaia, quegli inglesi che per la prima volta portarono un pallone da calcio in Italia non sembravano averlo capito fino in fondo: forse legati a valori amateur che ancora lottavano per sopravvivere anche ad Albione, forse non del tutto convinti che gli italiani avrebbero amato il gioco o si sarebbero mostrati capaci di praticarlo, quello che da noi venne chiamato inizialmente “Foot-Ball” rimase a lungo sport assolutamente dilettantistico come nel resto dell’Europa continentale. Fu attraverso numerose avventure che il calcio in Italia si sviluppò, distaccandosi dalle origini british per compiere un percorso tutto suo attraverso partite, squadre e personaggi che è sempre giusto ricordare, in quanto padri del nostro gioco preferito. Questa è la storia di come è nato il calcio in Italia.


6 gennaio 1898, Campo Sportivo di Ponte Carrega, Genova

Genoa – Rappresentanza Torino = 0-1

Agli abitanti di Genova, quel 6 gennaio del 1898 doveva sembrare un giovedì mattina come tanti. La città si preparava a festeggiare l’Epifania, e in pochi fecero caso alle carrozze da cui scesero una decina di uomini distinti, giunti da Torino e dotati di zaini contenenti le proprie, rudimentali quanto eleganti, divise da footballers. Era del resto normale che quei pionieri passassero praticamente inosservati, in un’epoca in cui prendere a calci un pallone non soltanto era ben lungi dall’essere un mestiere, ma pratica di cui pochissimi erano capaci. Mentre portavano i propri compagni alla ricerca di un posto dove pranzare, il nobile Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia, 26 anni, discorreva con Edoardo Bosio, che di anni ne aveva 33 e pur non vantando prestigiosi natali discendeva dallo svizzero Giacomo Bosio, fondatore del primo birrificio in Italia. I due, dopo essersi sfidati più volte nei parchi torinesi alla guida delle rispettive compagini, nella storica gara che si sarebbe tenuta nel primo pomeriggio avrebbero ricoperto i ruoli di capitano e allenatore della “Rappresentanza Torino”, espressione dei migliori footballers della città venuti fino a Genova per sfidare i colleghi liguri.

Prima dell’apertura del Canale di Suez, datata 1869, lo sport sferistico più popolare in Italia era il “Pallone col Bracciale”, praticato già dal XVI° secolo e che aveva reso i suoi protagonisti ricchi e famosi destando anche l’interesse, nel corso dei secoli, di personaggi come Wolfgang Goethe, Giacomo Leopardi e Edmondo De Amicis. Quando il football si era affacciato in Italia, portato dai marinai inglesi che per la prima volta percorrevano in libertà le nuove rotte commerciali, lo aveva fatto insieme a numerosi altri sport nati Oltremanica e che però faticavano ad attecchire sul popolo per via dei complessi regolamenti e per la costosa attrezzatura che richiedevano. Nessuno poteva immaginare, nella seconda metà dell’Ottocento, che il calcio sarebbe divenuto ben presto lo sport nazionale anche in Italia, come nel resto di Europa e del mondo. 

Chi fu il primo a portare il football in Italia è ancora oggi materia di discussione, ma i numerosi storici che si sono cimentati sull’argomento assegnano proprio a Edoardo Bosio il ruolo di “primo pioniere”: così come il leggendario Prometeo rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, così un giovane ragioniere finito per motivi di lavoro a Nottingham tornò da Albione con in mano un pallone da calcio. Nel suo soggiorno lavorativo aveva infatti conosciuto il gioco del football proprio mentre questo si trasformava da passatempo per ricchi a sport popolare: soltanto a Nottingham esistevano centinaia di squadre, un fervido movimento che aveva donato alla Nazionale inglese persino il centravanti titolare, lo straordinario gentleman Tinsley Lindley, 14 gol in 13 partite con l’Inghilterra e tutti segnati in scarpe da passeggio in un’epoca dove il calcio era già molto simile a quello odierno. Bosio aveva lavorato alla “Thomas & Adams”, una ditta tessile, e dopo avere appreso i segreti del mestiere era tornato a Torino per lavorare nella filiale italiana dell’azienda: qui, insieme a molti colleghi inglesi, nel tempo libero che il lavoro gli concedeva aveva formato il “Torino Football & Cricket Club”, società che oltre al calcio si dedicava a cricket e canottaggio. Le primissime gare, in mancanza di avversari, Bosio e compagni avevano dovuto giocarle tra loro in Piazza d’Armi, e qui avevano attratto gradualmente un gruppo di persone prima incuriosite e poi affascinate da quel nuovo quanto curioso gioco. Tra questi vi era il futuro Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, che con l’entusiasmo che lo avrebbe contraddistinto in ogni campo della vita aveva deciso di fondare immediatamente un proprio club insieme ad alcuni amici di nobili origini tra cui il già citato Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia: il nome della squadra, che sarebbe stata riservata ai “sangue blu” che desideravano cimentarsi nel nuovo sport giunto dall’Inghilterra, sarebbe stato “Nobili Torino”, e il proprio terreno di gioco sarebbe stato lo splendido Parco del Valentino, lasciando ai borghesi del “Torino FCC” di Bosio lo spiazzo di Piazza d’Armi. Le prime partite di calcio tra due diverse società, dunque, furono giocate nel capoluogo piemontese: gare di cui non conosciamo risultati o marcatori, di cui non abbiamo alcuna testimonianza ma che sappiamo esserci state in gran numero, almeno fino a quando, dopo due anni di sfide, nobili e borghesi decisero di unire le forze per formare l’Internazionale Torino, nata nel 1891 e che però si trovò nuovamente alle prese con il problema rappresentato dalla mancanza di avversari. Contro chi avrebbero giocato Bosio e compagni? L’unica alternativa cittadina sarebbe nata alcuni anni dopo, quando Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia avrebbe fondato il “Football Club Torinese”, ma certo non si poteva parlare di uno sport popolare finché restava praticato in una sola città.

Due anni dopo, nelle sale del consolato britannico di Genova e patrocinati dal console e baronetto di Sua Maestà la Regina Vittoria Charles Alfred Payton, un nutrito gruppo di inglesi fondava, il 7 settembre 1893, il “Genoa Cricket & Athletic Club”, associazione che inizialmente avrebbe inteso praticare il football soltanto come esercizio di riscaldamento per la più nobile disciplina del cricket. Ben presto però quei gentlemen, giunti in città per affari in seguito all’apertura del Canale di Suez, avevano notato che alle sfide calcistiche di cui erano protagonisti con i propri marinai il sabato pomeriggio assisteva una folla sempre più numerosa e interessata. Che l’Italia fosse terreno fertile per il football tanto quanto l’Inghilterra? Il Genoa è considerato a ragione il club calcistico più antico d’Italia, in quanto nonostante sia sorto dopo i club di Torino è ancora in attività e l’unico che può vantare un atto costitutivo ufficiale. Questo, nei primi anni, prevedeva che soci e giocatori avrebbero potuto essere esclusivamente inglesi, ma tutto cambiò con l’ingresso in società del medico James Richardson Spensley, giunto in città per prendersi cura dei marinai ma ben presto protagonista della vita della città, sportiva e non, grazie ad una personalità unica. Uomo di enorme spessore culturale e morale, era convinto che lo sport dovesse unire anziché dividere e per questo era riuscito ad ottenere, nel 1897, che il Genoa si aprisse anche ai non-britannici: se i numerosi italiani e svizzeri entusiasti del nuovo sport intendevano praticarlo insieme ai figli di Albione, dunque, che si facessero avanti! Era stato ancora Spensley, venuto a sapere di un ormai acclarato movimento calcistico torinese, a invitare a Genova quelli che considerava “fratelli di passione” per disputare quella che si può senz’altro considerare la prima “vera” partita di calcio giocata in Italia. In Inghilterra infatti il football aveva basato il suo successo, oltre che sull’estrema semplicità del regolamento e degli strumenti necessari per giocarlo, anche sulle forti rivalità di campanile che si erano create ben presto tra le diverse città: se il calcio intendeva diventare popolare anche nel Belpaese, dunque, era fondamentale che si sfidassero tra di loro due movimenti validi e attivi. E chi meglio dei torinesi?

Fu così che, alle due e mezzo del pomeriggio del 6 gennaio 1898, sul campo sportivo di Ponte Carrega che sorgeva nei pressi di Staglieno, il Genoa e la rappresentativa di Torino scesero in campo: agli ospiti, che mancavano di un uomo, i padroni di casa fornirono il difensore Fausto Ghigliotti, giovane figlio di uno spedizioniere e per questo motivo entrato presto in contatto con gli inglesi e con il football da essi praticato. Circa 200 persone circondarono il terreno di gioco, con i soci dei club che pagarono 50 centesimi, la metà della lira richiesta agli spettatori comuni: tra questi un giovanissimo Vittorio Pozzo, tifoso del FC Torinese del Marchese Ventimiglia. Per assistere alla gara, diretta dal reverendo inglese Douglas, il futuro CT dell’Italia si era pagato viaggio e biglietto vendendo alcuni libri di latino: pur avendo appena undici anni, dunque, Pozzo aveva fatto una scelta di campo che avrebbe influenzato il futuro suo e di tutto il calcio italiano. I più agiati tra gli spettatori pagarono una lira supplementare per il noleggio di una sedia, fornita gratis ai soci presenti in tribuna tra cui i genoani Blake e Fawcus: il primo, trasferendosi in Sicilia per lavoro, avrebbe fondato il club destinato a diventare l’odierno Palermo. Dovevano scoccare ancora le tre quando i piemontesi si portarono in vantaggio con il gol che avrebbe deciso la gara, segnato dal Marchese John Savage, per gli amici “Jim”, imprenditore che vantava in patria una breve esperienza nella squadra riserve del Notts County: pur non avendo mai neanche sfiorato il professionismo in Inghilterra, il suo spessore tecnico era sufficiente per ergerlo tra i migliori giocatori presenti sul campo, e il suo gol può essere considerato il primo ufficialmente mai segnato in Italia. All’alba del nuovo secolo, Savage avrebbe militato nella Juventus, primo straniero di sempre, e ne avrebbe influenzato la storia convincendo i compagni ad adottare il bianconero del Notts County in luogo del rosa utilizzato nei primi anni.

Il Marchese non era l’unico giocatore presente che avrebbe scritto la storia del calcio italiano: al suo fianco giostravano il portiere George Beaton e il difensore Dobbie, mentre in attacco di fianco a Bosio e Ferrero di Ventimiglia erano presenti Carlo Nasi e Carlo Montù, il primo futuro velista alle Olimpiadi del 1924 e il secondo che sarebbe stato pluridecorato in ambito militare durante la Grande Guerra. Tra i genoani, oltre al portiere Spensley, che si sarebbe distinto anche nello scautismo e nella beneficienza, figuravano il Conte De Galleani, futuro importante direttore di banca, ed Enrico Pasteur, imparentato con il famoso batteriologo svizzero e perno del Genoa nei gloriosi anni che sarebbero venuti come giocatore, dirigente e presidente. La stampa presente descrisse la gara, giocata sotto un tempo inclemente, con un misto tra fascinazione e curiosità: nessuno poteva sapere che quella insolita esibizione avrebbe significato l’inizio di un mito, una religione, un appuntamento imperdibile per milioni di italiani. Al termine della sfida, in un’atmosfera conviviale, genoani e torinesi convennero che si sarebbe dovuta tenere una rivincita pochi mesi dopo, al termine della quale nasceva la FIGC e veniva fissata la data del primo campionato italiano.

Il calcio aveva visto la luce anche da noi.

“Il Foot-Ball Match di Ponte Carrega. Come avevamo annunziato ebbe luogo ieri nella pista di Ponte Carrega, il Foot-ball Match fra i soci del Genoa Athletic Club e i soci del Foot-ball club di Torino. Il pubblico accorse abbastanza numeroso: vi primeggiava – come è naturale – la colonia inglese. Il giuoco piacque assai e gli spettatori presero vivissima parte a quel palleggiamento, in cui è tutta una ginnastica del corpo, e per cui è d’uopo possedere ottimi polmoni e gambe degne di un Bargossi.* Furono vincitori i Torinesi: ma i nostri però tennero alto il nome del loro giovane Club, battendosi con molta bravura. Non si ebbero a lamentare disgrazie, come sogliono avvenire in simili gare nell’America del Nord ed in Inghilterra, ove le lussazioni, le ammaccature e talvolta, persino le rotture di costole sono le naturali conseguenze del football. Soltanto debbo notare che il bravo e forte footbalista Pasteur della società genovese nel calore del giuoco ruzzolò per terra, riportando leggerissime escoriazioni al viso e ad un ginocchio, che non gli impedirono però di continuare il giuoco. Come si vede, i torneanti si sono diportati con insolita cavalleria in un giuoco di per sé stesso pericoloso, poiché costituito, in gran parte, da una sapiente ginnastica dei piedi, i quali descrivono sorprendenti e meravigliose traiettorie.”

(“Il Caffaro”, 7-8 gennaio 1898)

*riferimento ad Achille Bargossi, storico corridore forlivese soprannominato “la locomotiva umana”.

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