Calcio
“Non è tutto oro quel che luccica”: retroscena Mondiale. Episodio 2
Messi e la sua Argentina si sono laureati campioni del mondo, dopo una finale spettacolare vinta ai rigori con la Francia. 2-2 ai tempi regolamentari, 3-3 ai supplementari. Dal dischetto l’Albiceleste non ha fallito e Leo ha vinto tutto quello che poteva vincere in carriera, conquistando la terza Coppa del Mondo nella storia dell’Argentina. Leo nel segno di Diego, che starà sorridendo dal cielo. Ciò che è avvenuto sul rettangolo verde però è noto a tutti.
In quanto realtà giornalistica che tratta di sport, la redazione di 1000 cuori si è interrogata a lungo sulle modalità con cui relazionarsi al Mondiale in Qatar, probabilmente il più controverso della storia del calcio. E mentre Messi si è trovato durante la premiazione a coprire la maglietta dell’Argentina indossando, su caldo invito dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, il Bisht, mantello tradizionale del golfo simbolo di regalità e ricchezza, tra le papabili candidate a ospitare il torneo nel 2030 spicca il nome dell’Arabia Saudita. Pensiamo dunque sia necessario analizzare le criticità emerse prima, dopo e durante il Torneo calcistico più importante al mondo perché riteniamo sia nostro diritto e dovere fare informazione a 360° e creare sensibilizzazione attorno ad alcune problematiche purtroppo spesso presenti attorno allo sport che più amiamo, affinché le coscienze non rimangano inebetite davanti a discriminazioni, odio e censure.
Comunità LGBTQIA+: una storia di discriminazione, censura e rieducazione
Durante questa inusuale edizione invernale della Coppa del Mondo, migliaia di tifosi da tutto il mondo hanno invaso con striscioni, gioia e colori le strade di Doha per supportare la propria nazionale o semplicemente per ammirare e godersi lo spettacolo dei match del torneo calcistico più importante al mondo. Non tutti i visitatori però erano graditi nel paese arabo.
In Qatar, infatti, l’omosessualità è considerata un crimine. Paradossale che esista un pensiero così retrogrado ai giorni nostri vero? L’articolo 296.3 del Codice penale criminalizza vari atti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e prevede il carcere, ad esempio, per chi “guidi, induca o tenti un maschio, in qualsiasi modo, a compiere atti di sodomia o di depravazione”. Un altro articolo, il numero 296.4, criminalizza invece chiunque “induca o tenti un uomo o una donna, in qualsiasi modo, a compiere atti contrari alla morale o illegali”. Organizzazioni internazionali non governative come Human Rights Watch, che si occupa della difesa dei diritti umani, hanno denunciato casi in cui le forze di sicurezza hanno arrestato persone LGBTQIA+ in luoghi pubblici, solo sulla base della loro espressione di genere, controllando i contenuti dei loro telefoni. Le persone transgender arrestate sono obbligate a seguire terapie per la conversione come condizione per la loro scarcerazione.
Human Rights Watch ha intervistato sei esponenti della comunità LGBTQIA+ qatariota, tra cui quattro donne trans, una donna bisessuale e un uomo gay. Gli intervistati hanno riferito di essere stati arrestati dagli agenti del Dipartimento di Sicurezza Preventiva e detenuti in una prigione sotterranea di Al Dafneh, Doha, dove sono stati molestati verbalmente e sottoposti ad abusi fisici, che vanno da schiaffi a calci e pugni fino a sanguinare. Gli agenti di sicurezza avrebbero anche estorto confessioni forzate e negato ai detenuti l’accesso a consulenti legali, familiari e cure mediche. Tutti e sei hanno dichiarato di essere stati costretti dalla polizia a firmare impegni sulla “cessazione dell’attività immorale“. Questi atti potrebbero costituire una detenzione arbitraria ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani.
E se durante il torneo alcune nazionali si sono schierate esplitamente al fianco della comunità LGBTQIA+, come la Germania, che a favore dei diritti calpestati si coprì la bocca per la foto ufficiale prima della partita con il Giappone (il gesto non fu inquadrato dalla regia internazionale e di conseguenza la Rai non trasmise le immagini), hanno fatto discutere le dichiarazioni di alcuni giocatori o addetti ai lavori. Lloris ad esempio, portiere della Francia e dunque finalista del torneo, interpellato sulla questione dei diritti della comunità LGBTQIA+ in Qatar, aveva dichiarato la necessità di “rispettare le regole e la sensibilità del paese arabo ospitante il Mondiale”. Come tutti e tutte ricorderete, anche il presidente della Fifa Gianni Infantino ha difeso a spada tratta l’assegnazione dell’organizzazione del torneo al Qatar, dopo le aspre critiche per le condizioni dei diritti umani, la morte dei lavoratori migranti e il trattamento riservato alle persone LGBTQIA+: “Oggi ho sentimenti forti. Oggi mi sento qatariota, mi sento arabo, mi sento africano, mi sento gay, mi sento disabile, mi sento un lavoratore migrante”.
Come redazione sportiva ma soprattutto come redazione composta da uomini e donne che amano il calcio ed i suoi sani valori, che non tollerano le discriminazioni e le ingiustizie, ci chiediamo dunque come sia stato possibile non considerare la questione etica-umana nel momento di assegnazione del mondiale e affidare l’organizzazione a un paese tradizionalista, per usare un eufemismo, come il Qatar, in cui i più elementari diritti umani sono negati. Una delle tante scelte problematiche della FIFA è stata la scelta di vietare la fascia da capitano a sostegno della comunità LGBTQIA+, in favore di una meno problematica e più politicamente corretta (o scorretta?) fascia dalla generica dicitura “No discrimination”. L’ennesima lezione di ipocrisia in uno sport in cui troppo spesso il potere del denaro – in questo caso il rial qatariano – riesce a comprare anche ciò che non si potrebbe e dovrebbe comprare, i diritti umani.
“Vengo anch’io”, “No tu no”
Mentre stavamo facendo ricerche per scrivere questo editoriale, ci è venuto in mente un pensiero che, ripensandoci a posteriori, è aberrante: “Ma le donne potranno andare a vedere le partite?”. Nonostante pensassimo entrambi che la sharia (la legge islamica alla base del codice civile e penale di molti paesi mediorientali, tra cui il Qatar) non toccasse il pubblico straniero, abbiamo comunque deciso di controllare (e, in effetti, non ci sono stati divieti in proposito). Eppure, il fatto di aver avuto questo dubbio ha scatenato in noi un moto anche di compassione verso la situazione della donna nel Paese ospitante la rassegna mondiale.
Ammesse ufficialmente agli stadi nel 1998, le donne qatariote hanno pochissime libertà personali, dovendo continuamente sottostare ai dettami di un tutore maschile (prima il padre, poi i fratelli e infine il marito). Come riporta lo Human Rights Watch (HRW), letteralmente “il controllore dei diritti umani”, fin dalla nascita, le bambine che vivono in un regime fortemente sunnita – che applica alla vita quotidiana una teocrazia incentrata sull’Islam – possono decidere ben poco di loro stesse: già solo per sposarsi hanno bisogno del consenso del tutore legale e possono venire addirittura denunciate se non soddisfano a tutto a pieno i loro “doveri coniugali” (tra i quali, ovviamente, anche i rapporti sessuali, che molte volte si trasformano in veri e propri abusi).
Oltre ad avere poca voce in capitolo rispetto ai propri figli, di cui non sono le loro principali responsabili, le donne sottoposte a questo tipo di regime possono decidere ben poco riguardo a loro stesse: fino ai 25 anni hanno bisogno del permesso tutelare per poter viaggiare e tutto ciò che riguarda aborto o qualsiasi altro tipo di cure mediche, deve essere approvato dal marito o dal genitore maschio.
Come sottolinea giustamente La Repubblica, un simile stress a livello psicofisico comporta un alto tasso di depressione e autolesionismo tra le donne rese sostanzialmente schiave dal loro Paese d’appartenenza. Non è un mistero che il Qatar non sia l’unica Nazione mediorientale ad adottare questo tipo di politica ed è per questo che le donne in Iran stanno lottando per avere molti più diritti di quelli attuali; ed è giusto che, in questa battaglia femminista, l’uomo non venga visto come “nemico” ma possibile alleato verso la denuncia di un certo status. Dobbiamo purtroppo constatare che oggi il calcio spesso è sinonimo di compromessi sulla questione dei diritti in favore di interessi economici, nella speranza di poter assistere e partecipare, prima o poi, ad uno sport più sano e meno ingiusto, che sappia vedere nella diversità un valore aggiunto.
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