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Pop&Sports – Inno ai giocatori che esprimono valori importanti. Il caso LeBron vs Zlatan

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Recentemente, stiamo parlando di 1 o 2 giorni fa, l’attaccante del Milan Zlatan Ibrahimovic, in una lunga intervista rilasciata al sito dell’Uefa, ha riservato delle parole pesanti per il playmaker statunitense LeBron James: “LeBron mi piace molto. Quello che fa è fenomenale ma non mi piace quando le persone con qualche tipo di ‘status’ parlano di politica. Fai quello in cui sei bravo. Fai quello che fai. Io gioco a calcio perché sono il migliore nel giocare a calcio. Non faccio politica. Se fossi stato un politico, avrei fatto politica. Questo è il primo errore che le persone famose fanno quando si sentono arrivate. Per me meglio tenersi lontano da questi argomenti, e fare quello in cui si è bravi, altrimenti rischi di non farci una bella figura”.
Il giorno dopo non è mancata la risposta del King, dopo la vittoria con la sua squadra, i LA Lakers, contro i Portland Trail Blazers: “Non c’è modo che io stia zitto di fronte alle ingiustizie e mi limiti allo sport – ha detto il fuoriclasse americano – io sono parte della mia comunità e ho oltre 300 ragazzi nelle mie scuole che hanno bisogno di una voce e io sono la loro voce. Mi occuperò sempre di temi come l’uguaglianza, la giustizia sociale, il razzismo, l’assistenza medica e il diritto al voto. So quanto è potente la mia voce e la ‘piattaforma’ da cui parlo e la userò sempre per occuparmi di certe cose, nella mia comunità, nel mio paese e in tutto il mondo”. Chi ha ragione, secondo voi?

Personalmente? Io sto con il King di LA. Comunque, non sta a noi giudicare, perché ognuno è libero di pensarla come vuole. Per me è giusto che i giocatori, visto il proprio status, comincino ad alzare la voce per esprime i propri valori, anche se questi sono lontani dal campo. Romelu Lukaku, attaccante dell’Inter e nemesi di Ibrahimovic, ha ribadito nella 14esima Dubai International Sports Conference, riguardo agli episodi di razzismo nella gara Cagliari-Inter del 2019: “Come calciatori abbiamo il potere di provare a cambiare le cose. La squadra, i giocatori, devono prendere posizione”.
In Francia, dove il razzismo è forte verso africani e mussulmani, nel 2008, Lilian Thuran ha appeso le scarpette al chiodo per una malformazione cardiaca e ha utilizzato il suo status per inseguire la lotta contro il razzismo, creando la Communique Fondatiòn Lilian Thuram, con la quale si impegna per l’educazione contro il razzismo, e diventando ambasciatore Unicef nel 2010.

Un esempio oltreoceano è la NBA: l’anno scorso, atleti come Jaylen Brown dei Boston Celtics e Malcolm Brogdon degli Indiana Pacers, vicepresidenti dell’associazione giocatori NBA, avevano guidato diverse proteste pacifiche inneggianti al movimento “Black Lives Matter”. La NBA, istituzione del basket statunitense con il 75% del parco giocatori afro-americano, non si è fermata solo a dire parole al miele per i giornali, ma ha dimostrato al mondo che l’istituzione del basket più importante al mondo era contraria al razzismo, dando modo ai giocatori di continuare a manifestare anche da lontano. Altro esempio, quello più lampante negli States, è Muhammad Ali. Cassius Clay è arrivato addirittura a cambiare nome e, nel 1967, a perdere 3 anni di vita professionale e un titolo di Campione pur di difendere i suoi ideali, quest’ultimi legati alla guerra in Vietnam. 

Certo che se un giocatore, anche dalla fama mondiale, preferisce starsene in silenzio piuttosto che esprimersi non bisogna dargliene una colpa. E prima che ribattiate vi faccio solo un esempio di un giocatore che ha cambiato l’intera cultura pop degli anni ’90 e che, con il suo nome, ha firmato innumerevoli capi e accessori che tutti portiamo o abbiamo portato indosso: Michael Jordan. Esatto, nel periodo in cui MJ era sulla vetta del mondo, il giocatore statunitense preferiva non fare arrabbiare nessuno. La cosa più controversa fu non appoggiare il candidato afroamericano democratico Harvey Gantt alle elezioni per entrare al Senato. Alla domanda del perché di questo, Jordan disse: “Republicans buy sneakers, too”, ovvero “anche i repubblicani comprano le scarpe da ginnastica”. Questo fece molto scalpore, portando indignazione verso Michael, perché sembrava volere dire “non mi interessa se una figura riprovevole come Jesse Helms – in corsa per i repubblicani – venga eletto al Senato”. Lo stesso MJ disse, nella sua docu-serie: “Non ero un politico, ma uno sportivo. Mi concentravo su quello. Ero egoista? Forse, ma era a quello che dedicavo le mie energie”. 

Insomma, il concetto è sempre lo stesso: che tu sia un giocatore oppure no, ognuno è libero di pensarla come vuole. Certo, bisogna essere però coerenti con quello che si dice, se no si finisce come Zlatan, tagliato dai fatti riportati dal King Lebron: “Divertente che queste parole vengano da lui, perché nel 2018 in Svezia ha fatto le stesse cose. Non era stato lui, quando era tornato in patria, a dire che sentiva un certo tipo di razzismo in campo solo perché il suo cognome era diverso da quello degli altri? Era lui, giusto?”

 

Fonte: ansa.it / ilgiornale.it / repubblica.it / goal.com

 

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