Calcio
Quarto potere: intervista a Stefano Tura
Buonasera cari lettori, è con grande orgoglio che vi presento“Quarto potere” la nostra nuova rubrica che avrà come obbiettivo quello di farvi conoscere più approfonditamente alcune delle personalità bolognesi più influenti nell’ambito del giornalismo nazionale e non solo.
Una sorta di salotto di casa, dove il sottoscritto chiacchiererà informalmente con grandi ospiti saltellando tra esperienze personali e passioni di una vita, il tutto ovviamente utilizzando lo sport come filo conduttore.
Inauguriamo il registro degli invitati con Stefano Tura: apprezzato giornalista, volto noto fra gli inviati dei telegiornali RAI e da qualche anno anche scrittore in netta ascesa.
Ciao Stefano, benvenuto.
«Ciao Andrea, grazie per l’invito».
Partiamo sparati: cronaca nera per “il Resto del Carlino” (dove fra l’altro hai seguito le fasi della famigerata Uno Bianca), reporter dai fronti di guerra più caldi come Afghanistan ed Iraq, fino all’attuale ruolo di corrispondente per la RAI da Londra. Un girovagare straordinario in situazioni difficili per trattare di argomenti importanti, ma se non sbaglio sei partito dal “Guerin Sportivo”: giusto?
«In realtà ho cominciato al Carlino mentre ancora stavo finendo il liceo. Sai, allora c’erano grandi giornalisti in redazione e ti bastava guardare in silenzio per imparare. Non volevo propriamente fare il giornalista sportivo, ma sicuramente intraprendere questo mestiere. Al “Guerino” ci sono finito tramite Italo Cucci: quando divenne direttore del settimanale mi portò con lui nella sua nuova avventura. Fu una grande opportunità e la colsi al volo».
Fosse per me starei qua a mitragliarti di domande sulle tue esperienze lavorative in giro per il mondo ma, siccome la nostra testata giornalistica si occupa di sport sotto le Due Torri, viriamo subito verso argomenti a noi più vicini e sicuramente più leggeri. So che sei un grande tifoso rossoblù, hai seguito la squadra quest’anno?
«Certo, la seguo sempre anche se sono distante. Per la verità quest’anno non è che mi sia divertito poi più di tanto eh…»
Non certo un campionato memorabile, ad ogni modo l’obbiettivo è stato centrato. Terzo anno consecutivo di cosiddetto “ consolidamento” (purtroppo finito ancora una volta in calando), ma senza mai rischiare la retrocessione.
«Ah, non abbiamo mai rischiato perché il livello della Serie A è veramente basso. In questa stagione non abbiamo toccato neanche i canonici 40 punti. Non posso esser soddisfatto».
Acqua passata. Chiudiamo il capitolo che riguarda il triennio scorso e guardiamo avanti. Pare stia per partire un nuovo progetto con Pippo Inzaghi al timone: sensazioni?
«Mah, le sensazioni sono positive. Speriamo sappia mischiare la sagacia tattica del fratello con la verve che aveva quando giocava. A parte tutto, è ripartito con umiltà dalla C portando il Venezia prima in B e poi ai Play Off promozione. Sono fiducioso dai. Ah, permettimi di aggiungere una cosa però …»
Prego …
«Non sono mai stato uno di quelli “contro” Donadoni, era semplicemente finito un ciclo e quindi giunta l’ora di cambiare. Anzi, ti ricordi quando si parlava di lui per un possibile incarico da commissario tecnico!? Ecco, in parecchi eravamo preoccupati che potesse andarsene anticipatamente e adesso quasi tutti non vorrebbero più vederlo manco in cartolina».
Vero, in quel periodo molti si angustiarono per le indecisioni del tecnico bergamasco, ma poi la gente dimentica in fretta e noi lo sappiamo bene. Senti, un Pippo Inzaghi che alla prova di maturità nel massimo campionato dovrà certamente fare a meno di Verdi. Trasformati in Bigon per un minuto e dimmi dove interverresti col gruzzoletto ricavato dalla cessione del fantasista.
«Praticamente ovunque. Scherzi a parte, la prima cosa che farei è prendere un portiere perché certe uscite di Mirante mi hanno fatto venire la nostalgia di Gillet! Oh, era piccolo ma quanto saltava?»
Lo ricordo. Biondo, belga e legato al Bari …
«Proprio lui».
Poi?
«Poi andrei a rinforzare il reparto dei centrali difensivi. Tutto sommato Helander non mi dispiace ma serve altro. Confermerei senza dubbio sia Poli che Pulgar. Darei una chance a Di Francesco e punterei su Destro che potrebbe migliorare grazie ai consigli di Super Pippo.
Il resto sarà da riprogettare e lasciamelo dire: anche basta coi vari Petkovic, Falletti o Avenatti … »
Condivido Stefano, anche se, senza voler difendere l’Avenatti di turno, la squadra non è che poi abbia prodotto un gioco tale da consentire ai nostri centravanti di esprimersi al meglio …
«Vero, ma ti ricordi di Andersson?»
Come no …
«Ecco, a me faceva impazzire. Era il classico centravanti che pur non ricevendo cioccolatini da scartare faceva la differenza.
Si diceva persino che il gioco del Bologna fosse monotematico: palla lunga per Kennet che la “spizzava” per i compagni e tanti saluti. Il bello è che lui lo faceva. Ma faceva anche assist e parecchi gol. Altro pianeta. Sogno un centravanti così».
Lanci lunghi hai detto? ! Come l’inconfondibile stereotipo del calcio anglosassone dei tempi che furono … e allora mi hai servito l’assist per attraversare La Manica. Vivi a Londra lo so, ma una vocina mi ha suggerito anche che sei un sostenitore del Tottenham, non è vero?
«Confermo entrambe le cose».
Spero non nello stesso quartiere dove risiedono gli Spurs …
«No, altrimenti dovrei girare armato».
In effetti chi conosce la capitale sa che quella zona non è tra le più vivibili di Londra. Raccontami un po’ come è nata la tua passione per gli Hotspurs?
«Colpa del Guerino».
Ma dai?
«Sì, perché all’epoca facevo il “garzone” per Stefano Germano che era il responsabile del reparto internazionale. Praticamente dovevo occuparmi di tutti i faldoni e le diapositive che riguardavano il calcio estero. Prova ad immaginare lo sforzo, soprattutto perché eravamo gli unici ad avere le immagini a colori. Praticamente arrivavano fiumi di fotografie di Bob Thomas ed io mi innamorai pian piano degli Spurs. Non mi piacevano né Liverpool né United, troppo vincenti. Il Tottenham invece era quell’outsider che arrivò ad un passo dalla Coppa Uefa e che vinse poi la Coppa d’Inghilterra. Certo, c’erano giocatori del calibro di Glenn Hoddle, ma le partite non si vedevano praticamente mai in televisione e quindi si trattò principalmente di un’ infatuazione per lo più legata alla maglia. Ai ritratti dei giocatori, ecco una cosa così».
Tottenham che dopo la stagione passata in “affitto” a Wembley sta per tornare a casa, cioè nel nuovo White Hart Lane costruito sulle ceneri del vecchio.
«Guarda è uno spettacolo. Ci sono passato stamattina -seppur da lontano- mentre tornavo a casa.
Purtroppo per me sarà più scomodo andare alla partite visto che abito non lontano da Wembley, ma farò volentieri questo sacrificio».
Il capitolo che riguarda gli stadi inglesi mi tocca molto da vicino: tanti club hanno cambiato residenza negli ultimi tempi ottenendo però pessimi risultati dal punto di vista sportivo. Penso ad esempio al West Ham, che pare non abbia ancora digerito il passaggio dal vecchio Boleyn Ground al gigantesco Olimpico.
«Già, ci vuole tempo. Insomma cambia tutto, dalle dimensioni del campo all’atmosfera creata dai tifosi che si trovano in un ambiente completamente nuovo, magari spaesati dopo una vita passata a soffrire sempre sullo stesso seggiolino del vecchio stadio.
Per fortuna però che per il “mio” Tottenham si è trattato solo di un passaggio temporaneo, mentre per gli Hammers è stata una scelta di vita. Sono contento che si possa tornare al WHL anche se, tutto sommato, l’esperienza a “domicilio della nazionale” è stata molto utile dal punto di vista economico. Pensa solo alle notti di Champions con lo stadio esaurito da 85 mila persone; praticamente il doppio rispetto alla capienza massima dello storico White Hart Lane».
Business contro tradizioni, una battaglia durissima. Tra l’altro pare che altri due club della capitale siano in procinto di cambiare aria: il Chelsea ed il neopromosso Fulham.
«Allora, il Chelsea è in fase di stallo per via della diatriba tra Abramovich ed il governo britannico. Tieni presente che il patron dei Blues ha appena acquisito la cittadinanza israeliana per usufruire di un visto che altrimenti con passaporto russo non avrebbe ottenuto. Insomma, una serie d’intrecci politici abbastanza delicati.
Per quanto riguarda il Fulham invece spererei proprio di no, visto che gioca già nell’impianto più bello del mondo (il “Craven Cottage” si trova in un parco, con un lato che costeggia addirittura il Tamigi!), ma la struttura è antichissima. Forse non riuscirà ad adeguarsi continuamente agli standard di sicurezza imposti dalla Football Association e prima o poi dovrà trasferirsi».
Stadi di proprietà ma non solo. Dove nasce il gap tra la Premier League e tutti gli altri campionati del mondo?
«Beh, dietro c’è un lavoro trentennale. L’allontanamento delle frange violente dagli stadi in primis. Ma poi anche tanto altro, come la fidelizzazione dei tifosi al club che ne diventano praticamente parte integrante o la figura del manager con ruoli non solo tecnici ma anche imprenditoriali. Inoltre, aldilà di tutto, la passione smisurata della gente per la propria squadra. Si gioca sempre in atmosfere uniche. Infine sai, diventa una sorta di catena: da cosa nasce cosa. Stadi pieni si traducono in maggiori incassi che, a loro volta, si trasformano in sterline da spendere sul mercato. Più giocatori importanti arrivano, più investimenti dal resto mondo si palesano e via dicendo. Da queste parti poi sono maestri nel fare business».
Caro Stefano, dopo aver fatto la spola tra Bologna e Gran Bretagna, non potevamo chiudere questa stupenda chiacchierata senza parlare un po’del tuo ultimo libro. È da poco uscito “A regola d’arte”, 6° romanzo della tua carriera e 3° di una trilogia di gialli. Neanche a dirlo, ambientato proprio a Londra con qualche richiamo a Bologna …
«Esatto, è il terzo ma sono storie differenti.
È un thriller ambientato nella “nuova” Londra post Brexit. Quella sempre più intollerante alla base e dove la forbice tra grandi ricchi e grandi poveri si allarga sempre più».
Si toccano diversi argomenti, anche di stretta attualità, come i nostri conterranei emigrati nel Regno Unito. Da una parte quelli che ci sono finiti per affari non proprio “puliti”, dall’altra i giovani che sono espatriati in cerca di fortuna. Vuoi dirci due parole?
«Sì, ho voluto fotografare la situazione sociale nella capitale concentrandomi sulla comunità italiana. Non solo quella d’élite, ma anche quella dei tanti ragazzi che si adattano a lavori pesantissimi e faticano a sopravvivere decentemente. In questo giallo intreccio la storia di un macabro omicidio avvenuto proprio ai piani più influenti della comunità italiana durante una sfarzosa mostra nel centro della City, con una serie di misteriose sparizioni di bambini. Il tutto legato a doppio filo con Bologna, dove lavora il “mio” storico investigatore Alvaro Gerace che finirà – seguendo le tracce di un pericoloso serial killer – per collaborare con l’ispettore inglese Peter McBride, ex ragazzo di strada riabilitato dal servizio di polizia».
Sono stato alla tua presentazione e mi sono bastati 5 minuti per acquistarne una copia.
«Mi fa molto piacere!»
A questo punto siamo veramente arrivati al termine. Da parte mia non resta che ringraziarti per l’intervista, salutandoti con l’augurio di risentirci più avanti, magari per discutere di un Bologna più competitivo.
«Assolutamente! Grazie a te e a tutti i lettori di 1000 cuori rossoblù. A presto e sempre Forza Bologna!»
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