Calcio
Racconti Mondiali – Cruijff, l’Olanda e il calcio totale (2/3)
Nel 1974 la selezione olandese, capitanata da Johan Cruijff e con in panchina l’ex Ajax Rinus Michels, si appresta a giocare un mondiale con la stella dell’outsider cucita sul petto, dopo aver stupito nel girone di qualificazione per risultati e gioco espresso: un gioco avveniristico, rivoluzionario, per molti il più grande passo in avanti svolto dal calcio e dalla tattica sino a quel momento (e forse anche dopo).
Ma prima un passo indietro. Perché i bambini di Amsterdam, Utrecht o Rotterdam non ricordano delle esperienze degli anni precedenti, come i loro vicini belgi o tedeschi. Né negative né positive: non c’è un goal da rivivere, una partita da rigiocare, un risultato da rimpiangere. Già, perché per trovare l’ultima partecipazione deli orange alla fase finale di un Mondiale (o di un Europeo), bisogna scavare indietro sino all’edizione di Francia ’38. Non era ancora scoppiata la guerra, i pantaloncini erano ancora larghi e chi si ricorda di quella competizione è ormai adulto (se non qualcosa di più).
Tuttavia, nonostante la nazionale maggiore manchi anche la qualificazione all’Europeo del ’72, sommando l’ennesimo secondo posto nel girone (dietro la Jugoslavia) agli innumerevoli precedenti, già dal finire degli anni ’60 qualcosa di inedito sembra muoversi all’interno del calcio olandese.
Sono gli albori del totaalvoetbal, letteralmente un nuovo modo di concepire l’intero sistema di movimenti, occupazione degli spazi e definizione dei ruoli. Mutuato dagli insegnamenti di Jack Reynolds (allenatore dell’Ajax prima negli anni ‘10-20 e poi ancora nei ’40) e dalle applicazioni ungheresi dell’Honved e della nazionale di Puskas, è tuttavia l’allenatore dei lancieri Rinus Michels a svilupparne la forma definitiva. Questa si basa sull’assunto per cui ogni calciatore, lasciata la propria posizione per la transizione offensiva, debba vedere la propria zona di campo nuovamente occupata da un compagno, e così a scalare verso la porta avversaria. Chiunque, quindi, può concedersi movimenti che variano rispetto al proprio compito principale, facendo sì che, a seconda della situazione, ci si debba improvvisare difensore, centrocampista o attaccante. È qui che si vedono, infine, le prime sfumature di quello che diverrà poi il pressing alto, e i primordiali tentativi di applicazione della tattica del fuorigioco.
Ad ogni modo, il salto in avanti proiettato da Michels sconvolge il panorama calcistico europeo, con un impatto senza precedenti: nel 1970 il Feyenoord vince la sua prima Coppa dei Campioni, ed è solo il preludio ai tre clamorosi e consecutivi trionfi dell’Ajax (già campione da tre anni in Eredivisie e finalista europeo nel ‘69).
La rivoluzione del tecnico si impernia su alcuni dei nomi che comporranno l’ossatura della nazionale finalista ai Mondiali ’74: Krol, Haan, Rep, ma soprattutto i due Johan, Neeskens e Cruijff.
Entrambi gli assi si esaltano al ritmo di Michels, espandendo e restringendo lo spazio senza soluzione di continuità, promuovendone l’aggressiva ricerca alta del pallone e la velocità di pensiero ed esecuzione. E mentre il primo si afferma come uno primissimi giocatori box to box al mondo, potendo occupare pressocché qualsiasi posizione in campo dalla difesa all’attacco, il secondo si trasforma pian piano in uno degli attaccanti (ma sarebbe riduttivo) più forti in circolazione. Mattatore, catalizzatore, accentratore totale dell’azione, che da lui passa ben prima di arrivare dalle parti dell’area di rigore. Perché Cruijff è motore, anima, fuoco della squadra in cui gioca, nell’Ajax così come negli arancioni.
Nel ’71 Michels passa al Barcellona, ma i lancieri continuano sulla scia del totaalvoetbal sotto la gestione del neoallenatore Stefan Kovacs e vincono due campionati, due coppe nazionali, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale e la primissima edizione della Supercoppa UEFA.
Quando il ciclo di successi continentali a livello di club sembra finire, con molti giocatori che abbandonano le proprie città per spostarsi nel resto d’Europa – Cruijff in testa – i tempi sembrano maturi per il decisivo salto di qualità in nazionale. E a chi poter affidare l’impresa, comunque dannatamente ardua, di poter dar lustro a una selezione che mancava un qualsiasi appuntamento da ben trentotto anni?
Ovviamente, viene chiamato Rinus Michaels, accolto come un profeta in patria dopo aver accettato l’incarico nonostante la contemporanea guida del club blaugrana. La qualificazione al torneo infatti riesce, ma con un percorso tortuoso che non convince appieno circa le doti del precedente coach Fadrhonc: nonostante la clamorosa differenza reti di +22 e i nove centri rifilati alla Norvegia, agli olandesi serve l’annullamento di un goal belga per inesistente fuorigioco all’ultima giornata per staccare il pass finale.
È quindi il ’74, e alla guida degli orange, Michels ritrova il gruppo che aveva portato alle prime vittorie con il club di Amsterdam: a essi si sommano il talento dei centrocampisti Van Hanegem e Jansen (scuola Feyenoord), quindi quello dello stopper Rijsbergen, dell’ala Rensenbrink e del (quasi) esordiente portiere Jongbloed. Proprio in quest’ultimo, l’essenza dello stravolgimento del ct: Jongbloed viene infatti convocato dopo dodici anni e alla veneranda età di trentaquattro, in sostituzione di van Beveren, e viene addirittura schierato titolare al posto di Piet Schrijvers (portiere proprio dell’Ajax). Il motivo? La sua partecipazione al gioco di rimessa e i suoi recuperi temerari ben oltre la propria area di rigore, considerati più importanti delle doti tra i pali. Soprannominato da Brera il portiere macchietta, in realtà si affermerà come una certezza della squadra subendo solo una rete sino alla finale contro i tedeschi.
I protagonisti maggiori sono tuttavia ancora loro, Neeskens e Cruijff. Il numero 13 si conferma come il prototipo del centrocampista totale e moderno, arrivando a coprire indifferentemente le due aree di rigore, così come i novanta metri che tra loro si frappongono, per l’intera durata della partita e con una qualità a tratti cristallina. E il Profeta del Gol è, se possibile, ancora più devastante: fluttua come un extraterrestre su ogni latitudine del rettangolo verde, non offre punti di riferimento, e solitamente gli avversari riescono a vederlo quando è già davanti al portiere.
La sinfonia prodotta dall’orchestra arancione coincide, quasi sempre, con il consueto avvicinamento, il progressivo accerchiamento e la conclusiva rapida combinazione che porta uno qualsiasi degli undici a calciare in porta. E nessuno, almeno sino alla finale, sembra potervi sfuggire.
La prima fase a gironi vede l’Olanda inserita nel terzo gruppo, assieme a Svezia, Bulgaria e Uruguay. La Celeste è la prima a cadere, al match d’avvio, sotto i colpi di Rep, che con una doppietta permette di portare a casa i due punti nonostante un eurogoal annullato a Cruijff per fuorigioco. Si intravedono i primi sprazzi di grande calcio, ma la scarsa condizione degli uruguagi rimanda qualsiasi discorso incensatore. Già nella partita successiva, infatti, la squadra di Michels si scontra con la fisicità della Svezia, e neanche la solita brillantezza le permette di andare oltre lo 0-0. Nell’ultimo e decisivo scontro si ha, tuttavia, la conferma che Neeskens e compagni sono tutt’altro che un bluff: la Bulgaria è regolata con un secco 4-1, il centrocampista va a segno due volte e Cruijff si esalta ancora.
Gli orange si ritrovano, per l’inedita seconda fase a gironi del Mondiale, assieme a corazzate quali Brasile e Argentina, oltre che alla Germania Est. Per nulla intimoriti dall’alzarsi del livello medio, gli indomiti ragazzi olandesi annichiliscono l’Albiceleste nel match di Gelsenkirchen, mettendo in mostra uno dei migliori Johan Cruijff di sempre, che segna due goal al culmine di una gara giocata sul filo della perfezione. La Germania Est viene liquidata con un perentorio 2-0, e l’ultima gara col Brasile assume sempre più i connotati di una, seppur informale, semifinale.
Tuttavia, la squadra verdeoro è lontana parente di quella vincente quattro anni prima in Messico: pastosa e imbolsita, non può nulla contro la freschezza olandese, e a Dortmund cede anch’essa per due reti a zero, subendo il terzo goal mondiale (meraviglioso) di Cruijff e il quarto di Neeskens.
È Il 7 luglio, ed è solo dinanzi alla Germania Ovest che il cammino arancione si arresta. La quadratura e solidità dei tedeschi, che prendono le misure agli avversari dopo la prima marcatura, neanche a dirlo, ancora di Neeskens, emergono via via che la partita prosegue e portano all’uno-due firmato da Breitner su rigore e da Gerd Muller.
Cruijff racconterà: “Se avessimo vinto noi quella finale, nessuno parlerebbe ancora oggi di quanto fossimo bravi e della perfezione del calcio che giocavamo”, e l’essenza di ciò che significò quell’Olanda forse risiede proprio qui: andare davvero oltre il risultato, forse per la prima volta. Facendo forse valere il principio per cui chi paga il biglietto ha diritto, innanzitutto, a godere di uno spettacolo. Ponendo la sperimentazione, l’imprevedibilità, la voglia di divertirsi e di divertire davanti a tutto.
Forse non alla propria identità ma, finale dixit, probabilmente anche davanti a un Mondiale.
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