Calcio
Sir Stanley Matthews, il primo Re del football – 18 gen
Un altro “Pallone d’Oro” è stato assegnato: vincitore dell’edizione 2015 è stato Lionel Messi, per tantissimi appassionati il calciatore più forte degli ultimi vent’anni, capace di vincere ben 26 titoli in carriera ad appena 27 anni e protagonista soltanto la scorsa stagione nelle vittorie di Liga, Champions League e Mondiale per Club con la maglia del Barcelona, l’unica squadra di cui ha vestito la maglia. Un premio, il “Pallone d’Oro”, molto controverso ma dotato indubbiamente di un fascino particolare e immortale: nacque in Francia, terra che moltissimo ha contribuito all’organizzazione del calcio – qui nacquero i Mondiali, gli Europei e la stessa FIFA – per volere dei giornalisti di “France Football”, che intendevano in questo modo premiare colui che veniva considerato annualmente il più forte calciatore europeo. La prima edizione si tenne nel 1956, e il trofeo finì nelle mani di Stanley Matthews, che è il protagonista della nostra storia di oggi.
Chi fu Stanley Matthews? Semplicemente, e indiscutibilmente, il giocatore più forte della sua epoca. Straordinaria ala destra, dotato di un dribbling e di una velocità fuori dal comune, fu capace di restare sulla cresta dell’onda incredibilmente a lungo, esordendo nel 1932 da professionista con lo Stoke City – la squadra della sua città natale – e ritirandosi addirittura nel 1965, oltre trent’anni dopo, vestendo la stessa maglia con cui aveva cominciato: in mezzo una lunga parentesi al Blackpool, che portò a livelli mai più raggiunti e quasi da solo. Trent’anni passati a dispensare magie sui palcoscenici britannici e mondiali, attraversando da protagonista un calcio via via sempre più evoluto e nonostante questo restando tra i migliori pur dividendosi tra due squadre mediocri, lontanissime dalle vittorie e dai trionfi che rendono spesso un campione immortale. Lui vi riuscì grazie a una classe straordinaria e a un’incredibile longevità, come detto, doti che non piovvero dal cielo ma furono sviluppate fin dalla più tenera età.
Nato nella periferia di Stoke-on-Trent, in un paesino chiamato Hanley, Matthews si dedicò al calcio fin dalla giovanissima età, allenandosi con scrupolo grazie al padre Jack, un cultore della preparazione fisica che lo educò a curare il proprio corpo in modo quasi militare: ogni mattina prima di andare a scuola Stanley faceva ginnastica con la finestra di casa spalancata, quindi correva per almeno un’oretta – abitudine che avrebbe mantenuto fino alla tarda età – per poi allenarsi nel dribbling addirittura ore, a scuola finita, palleggiando sul muro di casa e superando in slalom le sedie disposte in cortile in tempi sempre più ridotti. Fenomeno della corsa, in tanti prevedevano per lui un futuro luminoso come centometrista, ma il calcio ebbe il sopravvento portandolo a 14 anni a centrare il primo importante traguardo posto da papà Jack come condizione per continuare la carriera di calciatore: entrare negli “England Schoolboys”, la selezione nazionale dei migliori calciatori/studenti del Paese, privilegio riservato a pochissimi fortunati. La storia di questa rappresentativa è piena di ragazzini scartati in giovane età e poi rivelatisi assi del pallone, ma tra questi non figura Matthews, che fa il suo esordio contro i pari età del Galles in una gara che gli inglesi vincono per 4 a 1.
“Quando percorsi il tunnel per la prima volta con la maglia dell’Inghilterra scoppiavo d’orgoglio. La prima sensazione mentre la squadra emergeva alla luce fu il rumore dei tifosi che si erano ammassati nel terreno del Dean Court. Dovevano esserci almeno 20,000 tifosi, di gran lunga il pubblico più numeroso davanti al quale avessi mai giocato. Ho dato un’occhiata intorno e la vista di tante persone mi ha tolto il fiato. Il mio cuore batteva come se fosse un timpano suonato a pieno ritmo, e mentre correvo intorno al manto erboso era come se le mie scarpe potessero sprofondarvi e mai più uscirne.”
Tra le tante squadre che seguono quel piccolo fenomeno la spunta lo Stoke City, squadra cittadina vicina a papà Jack, che offre al ragazzo un posto nella squadra giovanile e un impiego nell’ufficio del club con la paga più che rispettabile per l’epoca di una sterlina alla settimana. Diventeranno cinque ancor prima che Stanley faccia il suo esordio da professionista, il massimo salariale possibile all’epoca, una cifra che viene percepita soltanto dai migliori giocatori con alle spalle anni di partite. Lui ha convinto tutti facendo meraviglie nella Squadra Riserve, inventando nuove finte che esaltano i tifosi e che fanno ammattire i malcapitati terzini sinistri che si trovano a marcarlo. Matthews è una furia della natura, un’ala che segna moltissimo, ma nel passaggio al professionismo intelligentemente accetta di mettersi al servizio della squadra, diventando uno specialista dell’assist smarcante, spesso eseguito con un cross teso che va soltanto sospinto in rete e che fa le fortune dei compagni d’attacco. La fama di individualista però è dura da scrollarsi di dosso: se ne accorge in Nazionale, dove esordisce giovanissimo e fa tali meraviglie da convincere il CT Winterbottom a escludere quei compagni incapaci di combinarsi con lui in modo efficace. Matthews supera in dribbling anche i malumori di chi, rimasto al suo fianco, sembra non aver tutta questa voglia di passargli il pallone, lo fa con classe e umiltà e ci riesce, ma appena diventa famoso ecco che sono i compagni dello Stoke ad accusarlo di avere atteggiamenti da divo. In realtà egli chiede soltanto dedizione e serietà, la stessa che mette egli stesso in prima persona: mai distratto dalla vita sociale, si è sposato giovanissimo con Betty, la figlia dell’allenatore conosciuta al suo primo giorno di lavoro in ufficio al club.
È inoltre del tutto astemio, quasi completamente vegetariano e non ha mai fumato una sola sigaretta in un’epoca in cui l’uso e l’abuso del tabacco è diffusissimo. In campo compie meraviglie inutili e fini a se stesse, in quanto la squadra rimarrà sempre troppo limitata per ergersi a protagonista del campionato, e mentre i rapporti con la dirigenza si fanno via via sempre più logori anche quelli con i compagni finiscono per non essere come dovrebbero essere in una vera squadra. Quando Matthews lascia lo Stoke è il 1947: la guerra lo ha visto prestare servizio nella RAF a Blackpool, cittadina incantevole sul mare e meta turistica di molti inglesi dell’epoca di cui si è innamorato, e ha portato anche il dolore della perdita di papà Jack, che in punto di morte gli ha chiesto di prendersi cura della madre e di vincere la FA Cup. È questo il motivo per cui nel 1946 rinuncia all’idea di ritirarsi, affiorata nella sua mente dopo l’assurda gara di FA Cup che lo Stoke ha giocato a Bolton mentre una tribuna di un Burnden Park sovraffollato ha ceduto uccidendo 33 persone, adagiate ai bordi del campo mentre lo spettacolo inesorabilmente andava avanti. Si trasferisce proprio al Blackpool, dove il manager Joe Smith lo accoglie con una battuta che passerà alla storia.
“Hai 32 anni, pensi di farcela a giocare ancora un paio di stagioni?”
Altro che un paio. Con la maglia arancione dei “Tangerines” (“Mandarini”) Matthews giocherà per ben 14 stagioni, mettendo insieme quasi 400 presenze. Nella sua nuova squadra, e mentre gli anni passano, finisce per mettersi ancor di più al servizio dei compagni, rinunciando alla gloria personale per correre inarrestabile lungo la fascia e pennellare cross al bacio per gli attaccanti. Del resto se sei il migliore non hai neanche bisogno di dimostrarlo, ed è quello che fa Matthews, che giganteggia anche nella gara che la Gran Bretagna gioca contro il Resto d’Europa per festeggiare il suo ritorno nella FIFA: finisce 6 a 1, segno di un calcio inglese che è ancora il migliore al mondo e che si conferma tale quando supera a Torino l’Italia in una gara che da noi viene ricordata per un gesto che Matthews compie dopo aver battuto un corner. Stremato dal caldo italiano si rimette in ordine i capelli, e per questo gesto sarà a lungo ricordato invece che per le sue straordinarie doti tecniche dal nostro pubblico. Nel 1950 l’Inghilterra si reca in Brasile per i Mondiali, è sicura di vincerli ma torna a casa dopo appena tre partite in cui perde persino con gli Stati Uniti: mentre l’intera delegazione torna in patria “nascondendo la testa sotto la sabbia” Matthews rimane in Sud America, studiandosi le gare dei grandi campioni contemporanei e con estrema umiltà tentando di carpirne i segreti. Ha 35 anni ma non intende rinunciare al suo sogno. Arriviamo così al 1953: a novembre il mito del calcio inglese cadrà per sempre con la sconfitta 6 a 3 a Wembley contro l’Ungheria di Puskas. Qualche mese prima però Matthews entra nella storia definitivamente, alzando al cielo il suo unico trofeo al termine di una partita che vede praticamente tutta l’Inghilterra dalla sua parte: dopo aver eliminato Sheffield Wednesday, Huddersfield, Southampton, Arsenal e Tottenham Hotspur, il Blackpool si ritrova a Wembley pronto per giocarsi la finale di FA Cup contro il Bolton Wanderers. Matthews e compagni avevano già giocato due finali prima di questa: nel 1948 erano stati sconfitti dal Manchester United per 4 a 2, mentre nel 1951 era stato il Newcastle ad avere la meglio. Era l’ultima occasione, ne erano consapevoli i giocatori e ne era consapevole Matthews, che ormai andava per i quarant’anni. Eppure, quando dopo appena due minuti il fenomenale centravanti degli avversari Nat Lofthouse segnò la prima rete della gara sembrò a tutti che i “Tangerines” avrebbero dovuto ingoiare l’ennesimo boccone amaro. Il pareggio di Mortensen era stato infatti immediatamente frustrato da un nuovo uno-due avversario, in rete a fine primo tempo con Moir e in apertura di ripresa con Bell. A poco meno di venti minuti dalla fine sembrava tutto finito quando il pubblico cominciò a gran voce a incitare quello Stanley Matthews che in molti avevano accusato per tutta la carriera di mancare nei momenti decisivi.
Chissà se fu il ruggito del pubblico, l’orgoglio del campione ferito, il ricordo della promessa fatta al padre e la consapevolezza che un’altra occasione non sarebbe mai capitata. Chi lo sa, sono quei momenti magici che il football sa regalare e che cambiano il destino, la storia. Al minuto 68 la gara smette di essere “la finale della FA Cup del 1953” e diventa “la finale di Stanley Matthews”: prima serve a Mortensen un pallone che va solo spinto in rete, quindi dopo che quest’ultimo ha realizzato su punizione il gol del pari a un minuto dal termine – primo e unico giocatore a siglare una tripletta in una finale di FA Cup – Matthews si invola sulla fascia e serve un pallone d’oro a Perry che però sbaglia. Poco male, un minuto dopo l’azione si ripete identica, e stavolta Perry non sbaglia, siglando il 4 a 3 dell’incredibile vittoria che vale il primo e unico trofeo mai sollevato da Stanley Matthews, il miglior giocatore della sua epoca. Per la prima volta Stanley beve con i compagni, mentre la stampa entusiasta dell’impresa sembra quasi dimenticarsi del povero Mortensen, attaccante sopraffino che segnerà valanghe di gol e che anni prima, segnando una rete dalla linea di fondo contro l’Italia, ha lanciato da noi il modo di definire un goal del genere “un goal alla Mortensen”. Matthews ci prova, a dire che in fondo quella è “la finale di Mortensen” e non la sua, ma ormai il pubblico è innamorato del suo eroe, del suo sogno finalmente realizzato alla soglia dei quarant’anni, e anche gli avversari sconfitti gli rendono tributo mentre la Regina lo premia e Winston Churchill lo apostrofa così: “Lei è uno stregone”. “The Wizard”, come passerà alla storia, insieme al “mago del dribbling”.
Matthews continuerà a giocare ancora a lungo. Dopo aver sfiorato addirittura la vittoria del campionato nel 1955/1956, dopo aver vinto il primo Pallone d’Oro della storia anche grazie alle numerosissime magie eseguite negli anni e per essere un atleta modello, compie una scelta di cuore e a fine carriera torna allo Stoke con cui non si era lasciato benissimo. Il campione ha la bellezza di 46 anni, eppure è ancora capace di raccogliere il club dalla seconda divisione in cui è sprofondato, riportarlo in massima serie e centrare due incredibili salvezze. Si ritira che di anni ne ha 50, il più anziano calciatore professionista ad aver mai giocato, un record incredibile. Dopo una breve carriera da allenatore di cui neanche sembra molto convinto, dopo un divorzio e un un nuovo matrimonio, spenderà il resto della propria vita a raccontare il suo calcio passato attraverso tre decadi e insegnando ai giovani in giro per il mondo, lottando anche contro l’apartheid in Sud Africa, dove a Soweto istituisce una squadra formata interamente da giocatori di colore che passa alla storia come “gli uomini di Stan”. Scompare nel 2000, pochi giorni dopo aver compiuto 85 anni, lasciando dietro di se un’eredità immortale: quella del più grande giocatore in un’epoca di grandissimi, quella di un campione che non conquistò che un trofeo ma che seppe entrare nel cuore delle persone grazie a una classe cristallina e a quei dribbling quasi a passo di danza che fecero dire al grande Pelé che in fondo “Matthews è colui che ha spiegato a tutti noi come il calcio va giocato”.
“Sicuro di se, forte mentalmente, divertente, generoso di spirito e, nonostante la fama, tanto con i piedi per terra quanto la folla che si accalcava nelle tribune con la speranza di vederlo spargere polvere d’oro brillante nelle loro dure vite lavorative.” *
FONTI:
* “The Way it is”, biografia di Matthews
Spartacus Educational, “Football Encyclopedia”
FOTO (nell’ordine): L’Equipe, UEFA.com, BBC, Telegraph.co.uk
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