Calcio
Tutto calcio che Cola #55: Sócrates e la ‘Democracia Corinthiana’, quando vincere era un dettaglio – 21 apr
Chiedete ad un tifoso medio italiano, di quelli che seguono con fatica il calcio nostrano e spesso solo la squadra del cuore, chi sia stato Sócrates: o non avrà idea di chi si stia parlando o lo catalogherà come un fenomeno di folklore, uno dei tanti dei primi anni ’80 della nostra Serie A, un “bidone” della Fiorentina. Leggere di calcio, provare ad espandere i propri orizzonti e sentire altri racconti aiuta a capire la bellezza di questo gioco: chi lo volesse fare scoprirebbe così che Sócrates non solo è stato uno dei più grandi giocatori brasiliani di sempre ma senza alcun dubbio il più singolare ed unico, una meravigliosa pecora nera. Un uomo che ha saputo dare vita ad un esperimento anch’esso unico e speciale, capace di scrivere non solo la storia del calcio ma quella di un Paese bellissimo e pieno di contraddizioni come il Brasile.
Figlio di un povero autodidatta giunto dall’Amazzonia, un uomo che trova nei libri, nella cultura, il modo per emergere e che chiama suo figlio come il grande filosofo greco, Sócrates al talento per il pallone unisce quello per la cultura, lo studio, la musica, la rivoluzione. Diventa medico e campione, regista a tutto campo con occhi dietro la nuca, capaci di leggere l’azione come nessuno al mondo. In un attimo sa dov’è il compagno meglio piazzato, e con i piedi che ha sa anche servirlo perfettamente. Alto e dinoccolato, disdegna l’impegno fisico, preferisce far correre il pallone quando non avanza lentamente ma inesorabilmente grazie a due piedi che sanno nascondere la sfera come il migliore dei prestigiatori. I risultati saranno eccellenti, in un calcio che va verso quello muscolare dei giorni nostri ma che ancora lascia spazio a chi ha talento – a patto che ne abbia in enorme quantità.
Mezzo secolo prima di Sócrates, a São Paulo, operai e manovali immigrati hanno fondato una squadra che rappresenterà i bassifondi cittadini, una squadra del popolo e per il popolo, do povo e para o povo. Il nome si ispira ad una delle prime squadre inglesi che hanno fatto una tournée in Brasile, il Corinthian FC, che a sua volta si era ispirato alla Magna Grecia. Come suo padre quando lo chiamò Sócrates, guarda un po’ il caso. E guarda un po’ il caso è proprio nel Corinthians che “O Doutor” diventerà un idolo. Vi arriva nel 1978, a 24 anni, dopo essersi messo in mostra con il Botafogo: regista offensivo alto ma non certamente robusto, con due piedi eccezionali e una visione periferica che in Brasile giurano abbia avuto solo un certo Pelé. La squadra va avanti tra alti e bassi fino al 1982, quando improvvisamente il Corinthians diventa famoso in tutto il Paese prima e in tutto il mondo poi, trasformandosi da squadretta in crisi economica a marchio globale e fenomeno di tendenza. È nata infatti la “Democracia Corinthiana”, un incredibile sistema di autogestione dove la squadra si erge a padrona del suo destino come mai prima e mai dopo è successo nel calcio.
Lo sfondo di questa storia è il Brasile dei primi anni ’80. La dittatura che ha preso il potere nel 1964 – quando è stato deposto il Presidente João Goulart in favore di una giunta militare supportata dagli Stati Uniti nella celebre ‘Operazione Condor’ – domina anche nel futebol, ma al Corinthians in crisi economica arriva un nuovo direttore tecnico che di calcio sa poco o niente, dato che è un sociologo: il suo nome è Adilson Monteiro Alves, e la prima cosa che dice alla squadra è che non sa come le cose vanno fatte, ma quello che sa per certo è che non vanno fatte come avviene al momento della sua instaurazione. Un altro mondo è possibile, si capisce, lo capisce meglio di tutti proprio Sócrates, che insieme ai compagni lancia appunto la democrazia all’interno dello spogliatoio: tutti uguali davanti a Dio, tutti uguali nelle decisioni che vengono prese per la squadra, dal primo dei campioni all’ultimo dei magazzinieri. Allenatore compreso, ogni persona che fa parte della squadra ha pari diritto di voto, ed è così che tutto viene deciso: orari dei pasti e degli allenamenti, formazione e modulo tattico, viaggi, ritiri, campagna acquisti. Tutto alla luce del sole. Siamo nel 1982, e a gennaio è morta in circostanze sospette e appena 37enne Elis Regina, la più famosa cantante di bossa nova del Brasile, che spesso si è scagliata contro i militari rivendicando il diritto alla libertà del popolo brasiliano.
La squadra si trasforma: quella che era una compagine mediocre con qualche individualità diventa un gruppo coeso e formato da amici più che da compagni di squadra. L’allenatore indica semplicemente una via, poi sta ai giocatori seguirla dando libero sfogo ai propri istinti, alla propria passione: difesa con Solito tra i pali e poi una linea a quattro composta da Alfinete, Mauro, Gonzalez e Wladimir, centrocampo a rombo con Paulinho e l’infaticabile Biro-Biro a correre per i due “cervelli” che sono Zenon e Sócrates, vero metronomo, cuore e cervello della squadra, capace con i suoi movimenti di accorciare e allungare la squadra, allargarla o stringerla, mentre tutti si muovono in armonia intorno a lui. In avanti ci sono la quantità e il dinamismo di Ataliba a far da supporto all’incredibile capacità realizzativa del giovane Walter Junior Casagrande, un altro che come Sócrates poi passerà dall’Italia senza essere apprezzato per il campione che è e che sempre come lui avrà i suoi bei problemi personali. Gioca in modo creativo, il Corinthians, gioca un calcio danzato, e in questo modo non solo conquista il Campionato Paulista due volte di fila dopo anni di vacche magre, ma diventa un vero fenomeno di costume e la seconda squadra più tifata del Brasile dopo il Flamengo. La divisa di gioco viene concessa dalla società in usufrutto ai giocatori, che la utilizzano per propagandare la democrazia, ricordando ai tifosi di andare a votare e sottolineando – spesso anche con striscioni – che si può vincere o perdere, ma sempre con democrazia. “Ganhar ou perder, mas sempre com democracia”. È una svolta.
Un giorno succede una cosa che più di tutti è indicativa di quanto grande sia stato Sócrates e di quanto importante sia stata la “Democracia Corinthiana”: O Magrão – uno dei suoi tanti soprannomi – segna una tripletta in una vittoria per 4 a 0, ma dopo ogni gol non esulta. Ne nasce una polemica: perché non lo ha fatto? Allora Sócrates spiega che, appena una settimana prima, la squadra aveva perso e i tifosi erano andati fuori di testa, minacciando di distruggere tutto. Una passione travolgente ed esagerata, una passione che “il Dottore” – che fuori dal campo ama interessarsi di tutt’altro, tanto che quando arriverà a Firenze dirà di essere in Italia principalmente per arricchirsi culturalmente – non capirà mai: il calcio è un gioco, si può vincere o perdere. “Non ero Satana una settimana fa, non sono Dio adesso”, dice. E incredibile a dirsi, i tifosi recepiscono e cambiano il proprio modo di tifare. Tutti insieme adesso, tutti uniti: è una democrazia vera, è quello che vuole il popolo, la gente, e non solo allo stadio. Immaginatevi che effetto ebbe nel Paese, immaginatevi se una cosa così – una squadra che si permette di sollevare un intero popolo dando lezioni morali ad un regime – sarebbe possibile oggi, trent’anni dopo. Lo dirà anche Zenon, il numero 10 di quella squadra: “Volevamo far capire alla gente che un cambiamento era possibile”. E ci riescono, il popolo è con loro, anche se come in ogni buona rivoluzione c’è chi per interesse o per spirito conservatore rema contro, e viene zittito solo dai risultati. Lo dicono in tanti, tra i protagonisti di quel Corinthians: e se non avessimo vinto? Sai che storie?
La storia finisce nel 1984: Adilson Monteiro Alves si candida alla presidenza del club, ma la fronda che sostiene il presidente conservatore Roberto Pasqual ha la meglio nella decisiva assemblea interna, anche se lui e i suoi uomini devono lasciare la sede del club dalla porta di servizio per evitare di essere linciati da una folla inferocita. Il bomber Casagrande lascia per andare al São Paulo, anche se tornerà dopo appena un anno, ma la partenza che significa la fine della “Democracia Corinthiana” è quella di Sócrates, che lo aveva peraltro detto prima delle elezioni: se vince Adilson rimango, altrimenti addio. Ed è un addio, perché O Magrão è uno di parola.
Sócrates diventa uno dei primi grandi stranieri della Serie A che riapre le frontiere nei primi anni ’80, ma è chiaro che uno come lui in Italia è un UFO, e non sarà mai capito: fuma, beve, considera i ritiri una punizione, non ha mai svolto sedute atletiche pesanti. “In Brasile si entra in forma giocando”, dice, altro che le corse in altura d’estate. Del capitano del Brasile esteticamente forse più bello di sempre – quello del 1982 giustiziato da Paolo Rossi – i tifosi viola vedono solo qualche sprazzo, mentre compagni e allenatore capiscono che hanno a che fare con un uomo vero, forse troppo. Uno che non cambia le sue convinzioni per il quieto vivere, anzi. Non può durare e non durerà, torna in Brasile dove chiude prima al Flamengo e poi al Santos. Lo trova diverso, il suo Paese: lo trova democratico, con il regime militare che ha abdicato: José Sarney diventa Presidente, democraticamente eletto, il 21 aprile del 1985. Proprio oggi sono trent’anni esatti. Missione compiuta, Dottore.
In Italia aveva detto: “Ho sempre fumato pur sapendo che fa male, cosi’ come amo bere birra. Oggi come allora. Ma il calcio e’ uno sport collettivo e non serve che tutti corrano. Ci sono quelli che corrono e quelli che pensano”. E continuerà a pensare, bere e fumare fino alla morte, che arriva immancabilmente presto: una cirrosi epatica si trasforma in un infezione intestinale, e O Magrão se ne va a neanche 58 anni. In tanti ripensano a quando, nel 1983, aveva detto: “Vorrei morire una domenica, mentre il Corinthians vince il titolo”. “Ehi” – si dicono tutti “è domenica, e il Corinthians si è appena laureato campione del Brasile”. È andata proprio così.
È questa l’ultima magia di Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Viera de Oliveira, il campione che amava giocare a calcio e non correre, che ascoltava John Lennon, leggeva Che Guevara e odiava le regole, soprattutto quando venivano imposte. L’uomo che, quando gli veniva chiesto perché bevesse, diceva di non domandarselo: “filosoficamente la domanda che mi faccio è, semmai: perché dovrei sforzarmi di essere diverso da quel che sono?”. Un giocatore fuori dal tempo, un campione fuori dal coro, l’unico che poteva ideare la “Democracia Corinthiana” negli anni bui della dittatura.
Per questo, anche se non solo per questo, chi ama il calcio dovrà ricordare Sócrates come un grande campione e come un ancor più grande uomo: per essere stato capace di regalare ai tifosi magie sul rettangolo di gioco e sogni di libertà e poesia al di fuori di esso.
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