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Calcio

Un giorno a Euro 2020: Turchia-Italia

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La stagione estiva a Roma è asfissiante, le temperature arrivano oltre i 30 gradi ma quelli percepiti sono molti di più. Quest’anno tutto si è complicato per via del Coronavirus: alla normale temperatura bisogna aggiungere il colpo finale che ti provoca la mascherina. Roma è passionale e calda, in tutti i sensi. Entri in un bar, in un ristorante o alle poste ma poco cambia, la gente è amichevole e ti inizia a parlare, anche se queste dannate mascherine ci tagliano il viso a metà. Non puoi vedere l’espressione di chi hai di fronte, puoi solo immaginarla. Sono arrivato nella Capitale mercoledì, vado in un bar del centro e dopo un po’ capisco che gli argomenti di discussione sono due. In un tavolo la gente si chiede: “Hai fatto Pfizer o AstraZeneca? Hai sintomi? Com’è stato?” Nell’altro tavolo, invece, la gente si domanda: “Aoh, come la vedi questa Nazionale dopodomani?” 

Già, perché un anno dopo ecco Euro2020. Gli Europei della rinascita, della speranza dopo più di un anno passato a pregare, a soffrire, a sperare. In questo lungo arco di tempo abbiamo rivalutato quelle che chiamavamo priorità: prima volevamo il mondo, ora ci basta un abbracciarlo per un po’. Camminando per Roma mi sono accorto di quanto la gente aspettasse questa manifestazione, e in fondo li capisco. Quando gioca l’Italia è sempre una grande festa, un tripudio di emozioni. Tutti uniti, per una volta non ci sono più rivalità tra Lazio e Roma o tra Milan e Inter: ora c’è solo la Nazionale. Ci stringiamo forte, come facciamo sempre nei momenti di difficoltà. Giovedì pomeriggio ho fatto un salto a Trastevere: sembrava di aver preso la macchina del tempo ed esser tornato indietro nel 2006. Sciarpe, bandiere appese sui balconi, un entusiasmo che per la squadra azzurra mancava da diverso tempo. Lì mi son chiesto: allora davvero il vento sta cambiando? Che Mancini abbia dato nuova vita a questo gruppo è ormai cosa nota: otto vittorie nelle ultime otto gare, zero gol subiti e finalmente calciatori che sudano per la propria maglia. Quindi la risposta all’ultima domanda l’ho avuta subito: sì, il vento sta cambiando. Lo vedi nell’entusiasmo della gente, lo vedi nell’attesa spasmodica di rivedere i propri beniamini in campo dopo tanto tempo, perché il giorno dopo l’Italia avrebbe aperto gli Europei contro la Turchia. E tra gli impazienti c’ero anche io.

Venerdì mattina dovevo farmi trovare a Casa Azzurri, spazio allestito ad hoc per gli Europei, per il ritiro del biglietto. Siccome non voglio mai lasciare nulla al caso, e siccome sono sempre in anticipo, mi faccio trovare lì con più di due ore in anticipo. La colpa però non è solo mia: spostarsi da dove alloggiavo io fino a Casa Azzurri in teoria doveva essere più complicato. Roma, poi, non ha un buon feeling con i trasporti pubblici. Dovevo cambiare due autobus e due metro, quindi mi faccio tutti i conti come a un esame di fisica aggiungendo per ogni intervallo di tempo un ritardo di dieci minuti. Non si sa mai. Invece questa volta no, autobus e metro arrivano (quasi) in perfetto orario e mi ritrovo a destinazione con largo anticipo. Più di 30 gradi e oltre due ore di attesa. Mi fermo in un bar lì vicino e leggo alcuni giornali. Il tema, ovviamente, è lo stesso: Turchia-Italia che si sarebbe giocata la sera. Dopo aver raccolto mentalmente molte informazioni utili, decido di ritornare vicino Casa Azzurri nonostante all’appuntamento mancasse ancora un po’ di tempo. Rispetto a un’ora prima, però, c’era gente già in fila. Mi avvicino e iniziamo a parlare. C’è chi è preoccupato per la partita, chi perché non sa se riuscirà a entrare perché non ha fatto in tempo a prenotarsi online, e chi invece è preoccupato perché “chissà se qui i maxischermi mi fanno vedere la partita sgranata”. Sorrido. Finalmente è il mio turno: ritiro il biglietto e mi allontano, non prima però di un collettivo “Forza Italia!” con tutti i presenti. Vado a pranzo ma finisco presto, sono le due del pomeriggio. Di tornare in centro non se ne parla, altrimenti poi rifai tu tutto il percorso tra metro e autobus. Dai, vado all’Olimpico.

Mancavo dall’Olimpico da almeno tre anni, arrivo e noto già quanto il Covid abbia inciso sull’organizzazione. Giustamente. Transenne ovunque, tanti ingressi e poliziotti ovunque. Il caldo ormai stava distruggendo tutto, ma poco importa: ritrovarsi lì, emozionato, non aveva prezzo. Poco dopo iniziano ad arrivare giornalisti da tutto il mondo, a caccia del posto migliore dove poter fare dirette e servizi. Dei tifosi italiani ancora nulla. Già, perché poco dopo iniziano ad arrivare i turchi, quelli che son riusciti a venire date le restrizioni sanitarie e politiche. E’ un clima di festa, li senti cantare, ballare e bere. Non si son fermati un attimo. Cinque ore sotto il sole di Roma a supportare la propria squadra. Uomini, donne, bambini. Anche qualche tipo strano che giustamente ha attirato l’attenzione dei giornalisti. Strano in senso positivo. A un certo punto iniziano ad arrivare anche gli italiani. La prima cosa che noto è che la maggior parte di loro aveva maglie risalenti al 2006. La voglia di tornare sul tetto del Mondo, in questo caso d’Europa, era tanta. Così l’ottimismo, perché ovunque ti giri vedi gente fiduciosa. Mi ha fatto ridere uno striscione che recitava “Dopo una grande sVentura siamo pronti per un’avventura”. L’orario di apertura dei cancelli è fissato alle 18, alla fine tifosi turchi e italiani si uniscono e iniziano a cantare insieme. Botta e risposta, come in America quando i rapper si sfidano a colpi di battute. Arrivano finalmente le 18. Gli ingressi erano quattro: A, B, C, D. I tifosi, a seconda di quanto scritto sul proprio biglietto, sarebbero entrati in uno slot preciso: dalle 18 alle 20, uno slot ogni mezz’ora. Per entrare devi avere in mano tre cose fondamentali: biglietto, documento personale e un certificato che attesti la vaccinazione oppure un tampone negativo a ridosso della partita. Passato il primo tornello si avvicinano gli steward, ti controllano come sempre e poi passi oltre. Come in un videogioco, tre livelli prima di arrivare alla fine. Finalmente, dopo diversi minuti, mi ritrovo l’Olimpico di fronte. Lo becco giusto con il tramonto. Arrivo al mio gate, vedo in lontananza uno scorcio di stadio ma aspetto un po’. Volevo gustarmi come si deve il momento. Prendo coraggio ed entro, come se stessi attraversando una passerella. Arrivo, uno spettacolo stupendo. Mi guardo intorno e vedo i tifosi emozionati. Uno spicchio di libertà, quella che questo brutto virus ci ha tolto per un po’. Prendo posto e mi godo l’atmosfera.

Il primo boato del pubblico arriva quando l’Italia entra in campo. Che momento. Per noi e per loro, perché sarà stato difficile anche per loro giocare sapendo di non poter esultare come si deve. Più tardi, verso le 20.30, inizia la cerimonia d’apertura. I palloni gonfiabili raffiguranti i colori delle 24 squadre partecipanti, ballerini volanti appesi a un filo sotto il cielo di Roma. Ad un tratto, poi, entra in campo il maestro Andrea Bocelli. Chi in quel momento non ha avuto la pelle d’oca vi starà mentendo. Da brividi, a sottolineare ancora di più il difficile momento storico che stiamo vivendo. Alle 21 le squadre entrano in campo, e all’Inno d’Italia ecco un’altra emozione. Tutti in piedi, mano sul petto e voce alta. Mi giro intorno, cantano tutti. Noto un padre che tiene in braccio suo figlio piccolo, avrà avuto sei anni: entrambi a cantare. L’ultima strofa è incredibile, un urlo liberatorio che le mascherina hanno quasi annullato. Poco dopo si parte, inizia Turchia-Italia.

Nei primi minuti i tifosi continuano a cantare, è una di quelle atmosfere che in Italia si vedono poco. E’ più da calcio inglese, ma l’abbiamo già detto che la Nazionale è un’altra storia. Arrivano le prime mancate occasione per gli azzurri e alcuni tifosi iniziano già a infastidirsi. Come se nell’ultimo periodo Mancini&Co. ci avesse abituato troppo bene. Questo però è un Europeo, tutta un’altra storia. Due momenti chiave nel primo tempo, due episodi da rigore. La gente implode: “Vai al VAR arbitro!” Sul primo episodio nulla, al secondo viene effettuato un check che però non porta a nulla. Il primo tempo si chiude in parità ma la fiducia resta la stessa. Lascio momentaneamente il mio posto e mi dirigo verso il bar per prendere qualcosa da bere. La fila è enorme, aspetto un po’ e decido di andare via. Volevo godermi ogni secondo di quel clima fantastico. Si parte con il secondo tempo. Intanto, i tifosi delle due squadre continuano a cantare. Dopo pochi minuti ecco il vantaggio dell’Italia: autogol di Demiral. Sfortunato sì, ma meritato per quanto aveva fatto la squadra di Mancini. Tutti in piedi, qualcuno rischia di cadere. Gli azzurri vengono dalla nostra parte, quanto gli siamo mancati. E’ 1-0 per noi. Vedo quel velo di preoccupazione che improvvisamente abbandonano i volti dei tifosi vicini a me. Torno a sedere ma continuo a esultare. Poco dopo altra azione, tiro ribattuto dal portiere turco e Ciro Immobile, da rapace d’area di rigore, non sbaglia. E’ 2-0 Italia. Senti i tifosi che improvvisamente intonano l’Inno d’Italia. Ci rialziamo in piedi e ricominciamo a cantare. Intanto la partita prosegue. La Turchia è allo sbando, nessuno riesce a impensierire una retroguardia perfetta. Manca la ciliegina sulla torta che arriva poco dopo: Lorenzo Insigne trova un gol capolavoro, un piatto destro che pietrifica Cakir. 3-0 e partita nel cassetto. Anche il capitano del Napoli viene a esultare nella nostra zona, dove c’era la maggioranza dei tifosi azzurri. Poco dopo, Danny Makkelie decreta la fine della partita. Buona la prima per l’Italia, una partita dominata dall’inizio alla fine. 

Non mi alzo subito, voglio godermi ancora un po’ lo spettacolo dell’Olimpico. Purtroppo però, poco dopo, uno steward mi dice di proseguire verso l’uscita. Qualche tempo fa sarei potuto restare, in questo momento no perché giustamente non devono esserci troppi assembramenti e ogni settore deve uscire in un certo lasso di tempo. Mi incammino verso l’uscita e vedo un po’ di folla. Mi avvicino e spunta Alessandro Matri. “Mitra, una foto!” Lui risponde: “Una foto per mille persone so’ mille foto”. Provo comunque a chiedergli un selfie, me lo concede e continuo dritto. Così, senza poco senso. Noto che i tifosi continuano a cantare, gli italiani sono euforici e intonano ancora l’Inno di Mameli, ma anche i turchi – nonostante la pesante sconfitta – restano allegri e gioiosi come lo erano nel prepartita. Continuo a camminare, giro e mi rigiro ed ecco che spuntano diversi striscioni. Uno mi ha fatto ridere, recitava: “Pomodori, cavolfiori, Raspadori”. Sono di spalle all’Olimpico. Cerco di capire come arrivare a casa, anche perché l’Olimpico non è proprio ben collegato con il centro città. La metro è chiusa, gli autobus non mi possono aiutare, a piedi ci metterei più di tre ore. C’è un’unica soluzione: taxi. Lo chiamo, mentre ormai l’Olimpico è deserto. Mi dice che dovrò attendere circa mezz’ora, gli dico di fare con comodo tanto la vista qui è stupenda e non ho fretta di allontanarmi. E’ quasi l’una, arriva il taxi a salgo. Giro la testa, guardo lo stadio che pian piano si sta spegnendo, ripenso alla splendida serata che ho avuto la fortuna di vivere. Lo riguardo, salutandolo con la promessa di rivederci presto. 

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