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Calcio

Valerij Voronin, il campione morto due volte – 16 apr

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Sugli splendori e le miserie del calcio sovietico si potrebbe scrivere un libro intero – e qualcuno lo ha fatto del resto- come sulle vicende che segnarono il destino dell’Unione Sovietica dal Dopoguerra al crollo del muro di Berlino. Il Partito, come in molti paesi del blocco comunista, vedeva nello sport uno straordinario mezzo di propaganda e, pur restando il locale campionato isolato dal resto del Continente, la Nazionale Sovietica si impose all’attenzione del mondo specialmente negli anni ’60, quando una straordinaria nidiata di campioni si affermò: fu così che il mondo conobbe Lev Jasin, ad esempio, il miglior portiere di sempre nonché l’unico capace di conquistare il Pallone d’Oro. Insieme a Jasin giocarono altri straordinari campioni, eppure il nome di molti di loro non è rimasto impresso nella memoria collettiva degli appassionati di calcio; considerati prima di tutto cittadini e lavoratori dello Stato sovietico, nessuno di loro ebbe mai il permesso di giocare al di fuori dei seppur vasti confini nazionali e, come per molti episodi accaduti durante la storia dell’URSS, in Europa giunsero soltanto informazioni frammentarie e approssimative. Chi assumeva atteggiamenti giudicati troppo stravaganti, chi tentava di ribellarsi a uno stile di vita imposto dall’alto, andava spesso incontro ad una brutta fine: è il caso di Eduard Streltsov, autentico ragazzo prodigio del calcio sovietico, soprannominato il “Pelé bianco” e capace di imporsi in Nazionale non ancora ventenne; il suo carattere ribelle lo portò a vivere un incubo, la prigionia in un gulag siberiano per scontare uno stupro mai avvenuto, uno spiacevole episodio che privò la Nazionale della sua stella offensiva; non solo la Nazionale, ma anche il suo club – il Torpedo Mosca – si vide di colpo mancare il faro attorno al quale ruotava tutta la squadra; un colpo terribile a cui la società calcistica, nata come forza proletaria e successivamente identificatasi con l’azienda automobilistica nazionale, seppe in qualche modo reagire. La storia di Streltsov è nota tra gli appassionati e merita senz’altro alcune letture. Ma in questa storia non ci occuperemo di lui, piuttosto del giocatore che lo sostituì nel cuore dei tifosi: Valerij Voronin.

Nato proprio a Mosca e cresciuto in una piccola squadra locale, il Kauchuk, Voronin viene aggregato intorno ai sedici anni alle giovanili di quella che sarà la sua unica squadra in carriera. I giovani si allenano di fianco alla prima squadra e, come tutti, anche il giovane Valerij resta incantato dal sapere calcistico di Streltsov, autentico idolo locale: il “Pelé bianco” è di appena due anni più grande di loro, eppure sia il club che il Paese ripongono su di lui enormi aspettative. Agli occhi di quei ragazzi, Streltsov è un esempio: alla loro età aveva già esordito in prima squadra, l’anno dopo si era laureato capocannoniere del campionato e adesso, compiuti da poco i 18 anni, è arrivato anche l’esordio in Nazionale, condito da una tripletta rifilata alla malcapitata Svezia. Un talento unico e irripetibile però: Voronin deve invece aspettare la maggiore età per esordire con la maglia della Torpedo, e accade proprio l’anno in cui Streltsov, che rifiuta di passare forzatamente alle squadre di regime, viene rinchiuso nel carcere di Butirka e successivamente imprigionato in Siberia. Siamo nel 1958 e Voronin si trova in una squadra di buon livello ma priva del suo miglior giocatore (“il miglior giocatore russo di sempre fuori dai pali”, lo definirà lo scrittore di football Jonathan Wilson)[1] peraltro appena classificatosi settimo nella corsa al Pallone d’Oro indetta da France Football e che ha visto trionfare il grandissimo Alfredo Di Stéfano. Bisogna rimboccarsi le maniche, e Voronin non si tira certo indietro: non potendo sostituire il campione nel ruolo in campo per via di caratteristiche tecniche diverse – oltretutto nessuno avrebbe potuto farlo, dato che fuoriclasse come Streltsov sono inimitabili – lo fa allora in termini di carisma e dedizione alla causa. Non si pensi però a un giovane semplicemente volenteroso: nel suo ruolo di regista di centrocampo Voronin è fortissimo e completo, abile sia dal punto di vista tecnico che tattico.

Alla Torpedo serve solo un anno per riprendersi (Coppa di Russia 1959) e due per imporsi: è il 1960, i bianco-neri vincono il campionato per la prima volta. Ai gol provvede la punta Ivanov, servito puntualmente dalla precisa mezzapunta Gusarov, mentre dietro a chiudere ogni varco ci pensano il poderoso centrale di difesa Shustikov e il talentuoso portiere ucraino Rudakov, per molti l’erede designato di Jasin. Difesa e attacco sono uniti, legati, proprio da lui, il giovane Valerij, a cui l’allenatore Maslov – vero e proprio “guru” della panchina e per molti l’inventore del 4-4-2 e del pressing – affida per la sua completezza la regia della squadra. È uno spettacolo per intenditori, Voronin, uno spettacolo dal punto di vista tattico più che tecnico: è ovunque, anche se ventenne gioca da veterano, quasi avesse un radar in testa che gli permette di ricevere le informazioni necessarie per trovarsi ad essere sempre nel posto giusto al momento giusto. Un giocatore che in Inghilterra viene chiamato “Box-to-Box”, cioè capace di districare una situazione ingarbugliata in difesa e un attimo dopo capovolgere il fronte di gioco in attacco, con un lancio preciso oppure con una lunga corsa palla al piede. Tecnicamente non vale Streltsov, nessuno può valere Streltsov: è comunque completo nei fondamentali e dotato di un’eleganza innata. Un faro, impossibile da non scorgere per compagni, avversari e spettatori.

“Ricordo bene Voronin” ha ricordato il giornalista Leonid Repin, nel 1999. “In un attimo, con una mossa elusiva, poteva far sparire il pallone dalla vista degli attaccanti avversari. Oppure poteva improvvisamente correre in area di rigore e con la difesa rivale piazzata offrire un intelligente assist per il suo attaccante. Ma più di tutto, deliziava con il suo gioco a centrocampo dove, prendendo la palla con un aggraziato movimento felino, Voronin la addomesticava, guardava i pezzi muoversi sulla scacchiera ed era sempre abile nel lanciarla con precisione dove serviva, suscitando inevitabili sospiri di ammirazione.” [2]

Sospiri di ammirazione non solo nei tifosi, ma anche e soprattutto nelle tifose: Voronin è infatti amato dal gentil sesso per il suo bell’aspetto e per l’eleganza innata che mostra sia dentro che fuori dal campo. Oltre ad essere un campione è anche una persona estremamente colta: legge poeti e drammaturghi, frequenta scrittori e attori, conosce le lingue straniere, tanto che si occupa lui stesso di fare da traduttore per i compagni nei rari impegni internazionali che la rigida “Cortina di ferro” concede. Logico che la Nazionale ci metta poco a notare questo “cittadino e sportivo modello”, e il CT Gavriil Kačalin lo aggrega alla squadra che ha appena conquistato il Campionato Europeo del 1960: i campioni non mancano, il Partito guarda con fiducia ai Mondiali del ’62 dove i sovietici, infatti, si presentano con buone credenziali. Voronin giostra in mezzo al campo, ben coadiuvato dall’ucraino József Szabó, in una squadra che vanta anche talenti come Netto, Chislenko e Ponedelnik, oltre soprattutto a Jasin, “il Ragno Nero”, il miglior portiere che la storia del calcio ricordi. L’Unione Sovietica in effetti parte benissimo, si impone nel suo girone – composto anche da Uruguay, Colombia e Jugoslavia – ma cade a sorpresa nei quarti di finale contro i padroni di casa del Cile, che trovano due reti con due autentiche magie da fuori area. Al termine del torneo Voronin viene comunque inserito nella “squadra ideale” della manifestazione, unico sovietico di sempre ad aver avuto tale onore. Ormai si parla di una stella del calcio sovietico e mondiale, e non ha nemmeno ventitré anni: viene inserito anche nella “squadra ideale” degli Europei del 1964, che i sovietici – guidati stavolta da Konstantin Beskov – perdono solo in finale con la Spagna, mentre la sua Torpedo Mosca prova a vincere ancora una volta il campionato, ma nonostante la sua splendida regia ed il suo dare l’anima il successo non arriva.  
I club del Partito sono troppo più forti e ben visti, servirebbe un miracolo: che si materializza nel 1965, quando Eduard Streltsov viene finalmente liberato dal Gulag nel quale è stato rinchiuso per ben sette anni. Non è più il ragazzo di una volta, è un uomo indebolito dalla fame e dal freddo e senza la grinta e il fisico di quando strabiliava il mondo. Ma è sempre Streltsov.

Giocare a calcio è come andare in bicicletta, diceva Nils Liedholm. Impossibile dimenticare come si fa una volta che si è appreso. E infatti Streltsov, rendendosi conto di non essere più capace di segnare gol in splendide azioni solitarie come era avvezzo a fare, si mette al servizio della squadra arretrando il suo raggio d’azione. Giocando prettamente da fermo, la sua classe gli permette di segnare, ma soprattutto, di dispensare assist fenomenali che vanno solo spinti in rete. Finalmente Voronin può giocare con il suo idolo d’infanzia, coprendogli le spalle con un fine lavoro di cucitura, che passa ovviamente sotto traccia rispetto alla classe di Streltsov ma che si rivela altrettanto importante. La Torpedo Mosca torna alla vittoria del campionato, le sue stelle sono osannate: per l’ex-prigioniero dei Gulag le porte della Nazionale rimangono però chiuse, mentre nella compagine che si appresta a disputare i Mondiali del 1966 Valerij Voronin è ormai una delle stelle più conclamate. Nel frattempo si è sposato formando con la bellissima moglie una coppia da rotocalchi (almeno per quel che si può esserlo nell’Unione Sovietica di quegli anni) e che è finito ancora una volta tra i migliori dieci giocatori al mondo nella corsa al Pallone d’Oro.
I Mondiali sono però un’altra parziale delusione. I sovietici si impongono in un girone che riserva molte sorprese, vedendo passare al secondo posto la sorprendente Corea del Nord, che elimina Italia e Cile, quest’ultimo sconfitto dai sovietici con un secco 2 a 0 che in qualche modo vendica l’eliminazione patita quattro anni prima. Voronin si sdoppia tra centrocampo e difesa, ben distinguendosi, unico tra i convocati della Torpedo campione dell’URSS (a dire il vero ce ne sarebbe un altro, il portiere georgiano Q’avazashvili, ma con Jasin – che ha già eclissato anche Rudakov – in porta ovviamente non giocherà mai). Proprio da difensore gioca il quarto di finale che vede l’URSS affrontare l’Ungheria: la sua marcatura su Florian Albert – splendido talento che cercherà invano di restituire grandezza al calcio magiaro – è spietata, Voronin giganteggia (guadagnandosi gli attestati di stima di chi assiste alla gara) e i gol di Chislenko e Porkujan permettono ai sovietici di guadagnare la semifinale.
Di fronte si trovano la formidabile Germania Ovest di Helmut Haller e Franz Beckenbauer, e sono proprio questi due a segnare le reti che eliminano i sovietici, che perdono poi anche la finale valida per il terzo posto contro il Portogallo del formidabile Eusebio. È un piazzamento finale, il quarto posto, che rimane tuttavia il migliore in assoluto per l’URSS e per le varie nazionali che ne sono scaturite dopo il crollo del comunismo. Valerij Voronin viene premiato con un piatto d’argento dalla giovane Regina Elisabetta come “il calciatore più elegante del Mondiale”.

Gli anni post-secondo titolo nazionale sono anni tribolati per la Torpedo Mosca, schiacciata dalla prepotente ascesa della Dinamo Kiev, tuttavia c’è tempo ancora per un canto del cigno da parte di Voronin: guida i suoi alla vittoria della Coppa Nazionale nel 1968, mentre in campionato la Torpedo torna tra le prime piazzandosi terza. Valerij Voronin non ha ancora trent’anni e di certo non lo sa, ma la sua carriera sta per interrompersi: accade una sera, quando – di ritorno in auto da un allenamento – ha un colpo di sonno che lo porta a perdere il controllo della vettura e a schiantarsi contro un’altra proveniente dalla direzione opposta, disintegrando la parte anteriore dell’auto. Sopravvive per miracolo, sbalzato via dopo l’urto a causa di un difetto di fabbricazione del sedile. Vivo per miracolo, passa diversi mesi in ospedale “fasciato come una mummia, respirando solamente con un tubo” – come lo ricorda il compagno Shustikov [3] – e i dottori si mostrano da subito scettici su un suo eventuale ritorno al calcio: hanno ragione, perché l’incidente ha cambiato il campione nel fisico e – soprattutto – nella mente. [4]
La moglie lo dichiara fin dal giorno successivo all’incidente, quando si reca a trovarlo in ospedale. È diverso, taciturno, silenzioso, con lo sguardo malinconico. E beve, prima di tanto in tanto, poi spesso, infine praticamente sempre. In breve il suo fisico, così invidiato dai tifosi e desiderato dalle tifose, va in malora. Pare provarci, a tornare a essere un calciatore, ma avevano ragione i dottori: è un miracolo che sia sopravvissuto, di tornare a giocare non se ne parla. E certamente bere non aiuta.

Voronin non tornerà mai più in campo, interrompendo la sua carriera nel 1968 non ancora trentenne e nonostante gli sforzi di compagni e allenatore, che gli vogliono bene e che ogni tanto, mentre si allenano, lo vedono fuori dal campo, appoggiato alla rete, come se osservasse la sua vita passata e ora perduta. “Come se”, poiché in realtà quasi tutti dicono che gli occhi sembrano mezzo addormentati, come quelli di chi non riesce a dormire veramente, tormentato da demoni personali impossibili da sconfiggere. Sparisce per un po’ dalla circolazione, rimanendo sporadicamente in contatto solo con il suo vecchio allenatore, Yuri Stepanenko, che prova a parlarci ma che in cambio ottiene solo vuote promesse e risate, risate amare, quelle di chi prova sulla propria pelle che la vita, a volte, in un momento può toglierti tutto quello che hai.
Impossibile raccontare la sua vita negli anni successivi al ritiro, semplicemente perché tale non la si può definire: non è vivere ma sopravvivere, quello che fa l’ex-direttore d’orchestra della Torpedo Mosca. Ciondolando da un bar all’altro, da una compagnia poco raccomandabile a una che lo è ancor meno, lo sguardo sempre perso nei ricordi di una vita passata, vuoto, annebbiato dalla vodka. La moglie, esasperata, ottiene il divorzio, gli amici non sanno più dove trovarlo e in che condizioni: finisce spesso in qualche ospedale psichiatrico, ne esce rinfrancato e voglioso di ricominciare, a parole, ma dopo poco tempo puntualmente è ancora a bere, tentando di dimenticare quel passato glorioso che non ritornerà. Nell’Unione Sovietica di allora i calciatori sono dipendenti statali, cittadini come tutti gli altri, e come tutti gli altri vengono trattati una volta che si spengono le luci della ribalta: Voronin si ritrova povero in canna, solo e dimenticato.
La sera del 20 Maggio del 1984, Yuri Stepanenko rincontra dopo anni il suo ex-pupillo. Accade allo stadio “Luhzniki” di Mosca, impianto dove il gol più bello di sempre – lo dice un sondaggio – lo ha segnato proprio lui con un prodigioso tiro al volo anni prima. Voronin è ovviamente ubriaco, l’ombra distorta dell’uomo affascinante e di successo che era quando calcava i campi di calcio, e in compagnia di tre uomini che l’anziano allenatore definirà “sospetti”. Talmente sospetti da costringerlo a prendere da parte Valerij e chiedergli se li conosce bene, se si può fidare di loro. Voronin ride, la solita risata amara, e dice che sì, li conosce bene, che non c’è niente di cui preoccuparsi. Quindi si allontana con loro. È questa l’ultima volta che viene visto in vita: il mattino successivo il suo corpo viene ritrovato in mezzo ad alcuni cespugli limitrofi all’Autostrada Varshovskoye, poco lontano. La causa della morte è un violento pestaggio con oggetti contundenti, motivazione ed esecutori rimangono sconosciuti. Si pensa che ci siano in mezzo debiti non pagati, o che sia stata una rissa finita male tra ubriachi, ma non si saprà mai niente di più di questo.
Avrebbe compiuto 45 anni in un paio di mesi, e chi lo ha ucciso non sarà mai trovato.

Al suo funerale, che si svolge a poche centinaia di metri dalla fabbrica dove nacque la Torpedo Mosca, sono presenti gli ex-compagni e i dirigenti, in un’ultima struggente identificazione tra Voronin e quella che è stata la sua unica squadra, il suo unico grande amore, portatogli via dal destino. Finisce così la vita di Valerij Voronin, anche se molto probabilmente l’ex “Alain Delon russo”, chiamato così per la sua eleganza e per il bell’aspetto, era morto molti anni prima, quella sera del 1968, in quel maledetto incidente.

“Valerij Voronin era il nostro Alain Delon. Anzi, ancora meglio, perché a differenza di Delon aveva gambe forti e ben tornite.” [5]

Note:

[1] theguardian.com, J. Wilson, 14/12/2006

[2]“Russian Icons: Valery Voronin: the Tragedy of a Man who almost wasn’t there”, www.footymatters.com

[3] [4] Victor Shustikov, sports.ru

[5]“Football – Una Vita”, (A. Petrov)

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