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Max

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Da molti anni penso, come Pier Paolo Pasolini, che il Bologna F.C. sia una malattia.

Avrei voluto guarire molte volte ma non ci sono mai riuscito. Decisi di tifare per i rossoblu a undici anni, quando non abitavo nemmeno a Bologna, per via del lavoro di mio padre. Questo fatto mi ha attirato subito un’impopolarità feroce tra i compagni di scuola, anche perché correva l’anno 1978, quello della prima stagione in cui il Bfc iniziò seriamente a rischiare la sua prima retrocessione. La prima partita che vidi allo stadio comunale, in curva San Luca, fu uno zero a zero squallido contro l’Ascoli. I nostri attaccanti di quell’anno erano personaggi indimenticabili come Bordone Vincenzi, il che è tutto dire. Non posso quindi lamentarmi per non essere stato in qualche modo avvisato, anche se la mia scelta è dipesa dalla tradizione di famiglia, in base alla quale mi si asseverava che nonostante tutto, con i suoi sette scudetti e il fatto di essere una delle quattro squadre italiane mai retrocesse – all’epoca -, il Bologna doveva comunque considerarsi una grande squadra. I miei amici di scuola la pensavano tutti diversamente, e i lunedì di passione in cui si coalizzavano per prendermi in giro fin dal mio arrivo in classe, per i risultati della domenica precedente, mi rendevano ancora più accanito e nello stesso tempo speranzoso. 

Anche dopo la scuola, infatti, per trent’anni ho creduto che nella scelta di amare il Bfc (è una fede, no?) fosse implicita una promessa non ancora mantenuta: quella per cui saremmo prima o poi tornati a essere all’altezza della nostra storia. Questo oggi fa di me un impenitente milordino, anche se non potendo più confidare nella storia – dopo poco meno di 40 anni di delusioni – mi limito a invocare le potenzialità che avremmo, se solo ci credessimo.

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